Geometrie pure, figure astratte, decori antropomorfi: quattro designer, quattro modi diversi per interpretare l’arte del tappeto: ecco un racconto in technicolor a più voci per sciogliere gli ultimi nodi sulla creatività.
Un tappeto è una superficie solo in apparenza bidimensionale perché si serve di rifrazioni, e cromatismi per andare oltre alla forma. È un ‘piano figurativo’, in cui non c’è l’espediente del volume. Ma negare una delle coordinate cartesiane ai designer significa sfidare i limiti della creatività per sperimentare nuove prospettive. Come hanno fatto Marco Lavit, da sempre ‘prigioniero’ della matematica o Marialaura Rossiello Irvine, che esplora la materia attraverso l’artificialità, o Sara Ricciardi, novella Sherazade che attraverso il tappeto racconta storie, ed Elena Salmistraro, che non smette mai di dipingere.
Marco Lavit e il fascino discreto della geometria
Relazioni spaziali che non hanno bisogno di una formula matematica, perché, come ha insegnato Albert Einstein, non basta andare da A a B: bisogna usare l’immaginazione per arrivare ovunque. Marco Lavit, classe 1986, concettuale e sofisticato con una notevole flessibilità alle diverse scale, ci sa fare con le proporzioni. Rinascimentale per indole, racconta di essere “prigioniero della matematica”, tanto che “spesso mi sembra di disegnare seguendo l’istinto, ma poi mi rendo conto che la mia è pura geometria”. Italiano, ma francese d’adozione, con il suo studio Atelier Lavit, fondato nel 2014, affianca al lavoro di architetto quello di designer. E ha clienti importanti, tra cui Living Divani, Ethimo, Carpet Edition, Lelièvre Paris e Nilufar. Marco crea arredi e lampade e quest’anno per ben due volte ha messo da parte le volumetrie per cimentarsi con la bidimensionalità con Carpet Edition e con Lelièvre Paris. E a proposito della sua ultima collezione per il noto brand francese, racconta: “Finis Terrae (composto da tre diverse texture, ndr) è un’odissea che fonde elementi mistici e mitologici, un viaggio attraverso i luoghi enigmatici della classicità. Tuttavia, non è la fine di un mondo; piuttosto, rappresenta l’incontro tra ciò che è sconosciuto e ciò che rimane nascosto nell’oscurità”. E poi aggiunge: “La mia sfida più grande è stata cimentarmi con i colori, di solito è la natura del materiale a decidere”. Ed è così che “ogni tappeto gioca con la sua metà che riceve in modo diverso la luce a seconda della lavorazione. Ho seguito da vicino l’esecuzione per mettere a punto tutti i dettagli che anche nella loro imprecisione tecnica dovevano comunque seguire il disegno. E al prossimo Salone del Mobile ci saranno ancora tappeti con il brand francese, prodotti per Ethimo e altre due aziende italiane”. Nel frattempo, con Nilufar, “stiamo selezionando pezzi da destinare a edizioni aperte o limitate”. E c’è anche la Galerie Théorème Éditions, una nuova avventura tutta francese di pezzi unici.
Le stratificazioni concettuali di Marialaura Rossiello Irvine
Per trovare connessioni tra forme di espressione apparentemente distanti e inconciliabili, Marialaura Rossiello Irvine usa un processo di astrazione che, partendo dalla materia e esaminando anche la sua innaturale trasformazione attraverso l’uomo, crea una magica alchimia in grado di trasformare l’organico. Lei, che dirige lo studio fondato da James Irvine, il famoso designer (e marito) mancato nel 2013 con una clientela di tutto rispetto come Arper, Baleri Italia, Discipline, Matteo Brioni, Muji, Thonet e molti altri, al Salone del Mobile di quest’anno ha aggiunto un nuovo tassello nel suo curriculum: la collezione di tappeti Postorganic per Jaipur Rug, azienda indiana che realizza annodati a mano.
“Mi piace esplorare la materia, abbracciare la tradizione e l’innovazione”, spiega, “e dunque la proposta di creare un tappeto aveva tutte le carte in regola per stimolarmi. È bastata una suggestione casuale – il lavoro del mio falegname su vecchie stratificazioni del legno, che una volta sezionate hanno creato grafiche inaspettate – per suggerire l’ispirazione per la collezione”. Quello di Marialaura è un racconto in perenne mutamento in cui tracce sovrapposte si intrecciano e, attraverso un gioco di colori e pattern, rivelano una straordinaria profondità visiva e tattile, ottenuta grazie alla annodatura a mano. Il lavoro si è sviluppato nell’arco di tre mesi: “I tempi variano, tutto dipende dalla produzione e dai materiali, e poi c’è da tenere presente la questione della sostenibilità. La forma è solo una conseguenza”. La designer si è cimentata anche con un catalogo di colori. Per il prossimo Salone del Mobile, queste cromie “avranno un nuovo sviluppo. E ci sarà la sedia progettata per Mattiazzi che finalmente sarà nella sua veste definitiva”.
Sara Ricciardi come Sherazade: trame e nodi sono tasselli di una narrazione
Chiamarla designer può sembrare restrittivo. Sara Ricciardi è diversa, sa cosa vuole e lo dice esplicitamente: “Senza materia su cui impostare un racconto non vale la pena neanche cominciare”. Originaria di Benevento, ma milanese ad honorem da quando – durante gli ultimi Fuorisalone – ha incantato la città con le sue performance, Sara non conosce la mediocrità. La creatività è la sua carta vincente, ma quando deve impostare un progetto sveste i panni della visionaria e rivela un deciso piglio manageriale. E lo si nota subito quando annuncia: “Ho preso la direzione artistica di Karpeta e Texturae (la prima produce tappeti e la seconda carte da parati, ndr), e tutto è nato dalla collezione Camere. Dopo il successo a Maison & Objet, l’intesa è sfociata in un impegno più concreto”.
E aggiunge: “Il design non è un semplice strumento creativo, ma una formula strategica, e il ruolo di art director è fondamentale per anticipare tendenze per una visione a lungo termine. La matita è uno strumento secondario: ciò che conta è la capacità di narrare un’identità per differenziarsi dagli altri”. E pensare che il mondo del tessile non era mai stato preso in considerazione dal suo Patastudio, abituato alla rigidità dei materiali come dimostrano le sue collaborazioni con Visionnaire, Houtique, Coin Casa, Culti, Giorgetti, Dolce & Gabbana Home. Solo un’unica esperienza per un concorso anni fa: un tappeto nato dopo un viaggio in Turchia, simile a “una grande gonna, un abbraccio orizzontale per vivere a terra, senza divani o tavoli, come è consuetudine in Oriente”. Saper immaginare mondi magici, ma con i piedi ben saldi a terra: questa è la forza di Sara Ricciardi, che ha uno sguardo che si allarga e si ridefinisce ogni volta, ma sa che prima di cominciare una nuova storia bisogna studiare la produzione, come sta facendo per Karpeta, una realtà tutta italiana con la taftatura al 60% a Reggio Calabria e le annodature in India. “Siamo concentrati su nuove tinture e, per la prossima collezione 2024, vogliamo invitare street artist per esplorare la morbidezza della tessitura. Il progetto non è solo estetico: stiamo anche rafforzando l’identità distintiva dei due marchi attraverso una strategia di comunicazione unificata”.
Nell’animo di ogni visionaria dimora forse una Sherazade, e così a novembre Sara Ricciardi ha dedicato alla voce delle Mille e una notte una mostra a Roma nella nuova galleria Spazio Giallo Interiors. Nessun annuncio sul Salone – tranne una collaborazione con Bosa a Maison Object di gennaio – ma lei, che insegna Social Design al Naba, svela: “A marzo presenterò un progetto speciale realizzato con Bonacina: ‘Una casa sull’albero’, ispirata al Barone Rampante di Italo Calvino e creata insieme agli studenti della scuola elementare di Lurago d’Erba. Sarà una grande ‘reggia’ tra fiori, scivoli e altalene”.
Elena Salmistraro: ogni tappeto è come un quadro
Il foglio bianco, per lei, non esiste: basta un attimo e si popola di oggetti fantastici, tra texture e tinte vivaci. È il mondo di Elena Salmistraro, designer e artista di Milano, classe 1983, che con la sua creatività mette la sua matita colorata su tutto. Da Apple a Disney, da Vitra a Bosa, da Driade ad Alessi, passando per Natuzzi, Cedit, Scapin e Cappellini, il suo curriculum è ricco, e alla voce tappeti si legge: cc-tapis, Illulian, Moooi e Tai Ping. “Sono abbastanza esperta in materia”, esordisce, “ho sperimentato tutte le tecniche, conosco la taftatura, le annodature e ho anche lavorato con la stampa digitale con Moooi”. E poi continua: “Per me il tappeto è un quadro con un effetto 3D, perché amo lavorare sull’altezza del vello e gli spessori dei materiali”. Una visione onirica, la sua, nutrita da un’immaginazione pittorica potente che diventa la chiave anche per la sua ultima collezione, Legami Legàmi o Lègami (per via dei nodi) per Tai Ping, manifattura di tappeti di Hong Kong. Un racconto che ha avuto una gestazione lunga, come spiega la designer: “Ha iniziato a prendere forma quando è nato il mio secondo figlio, in pieno lockdown. Una tempesta di emozioni, tra la gioia per il mio bambino e una profonda preoccupazione per quel periodo di solitudine. E io, priva di qualsiasi gesto d’affetto, ho iniziato a schizzare, fra mani intrecciate e braccia annodate, quasi fosse un antidoto per colmare la lontananza”. Un ‘parto’ lungo, durato quasi tre anni, ma alla fine l’esito è un racconto fatto di sei elementi distinti: quello dedicato al Pollice a forma circolare, quelli di Indice, Medio, Anulare e Mignolo rettangolari e infine l’intera Mano, con il suo profilo irregolare e articolato. “Per farli”, prosegue, “abbiamo usato tutte le tecniche di taftatura a mano disponibili, lane diverse, sete, tanto che la collezione è un catalogo della bravura di quest’azienda che ha inventato la tecnica di tufting”. La linea, dopo Milano, ha conquistato anche Parigi, a dimostrare che il tocco di Elena lascia un segno su tutto ciò che fa. E per chi ancora non fosse convinto, basta la lista di aziende per cui sta lavorando per il 2024: una quindicina i progetti in via di sviluppo, da Cappellini a Bosa, da Alessi a Scarlet Splendor.