Talento, coraggio e intuito: Benedetta Tagliabue, lombarda di origine, spagnola per amore e con un tocco di venezianità acquisita con la laurea alla IUAV, è una figura di spicco nel panorama dell’architettura contemporanea grazie al suo studio EMBT, con sedi a Barcellona, Parigi e Shanghai. Lei, fra le poche donne con un curriculum da archistar in un mondo maschile come quello dell’architettura, vincitrice di più di cento fra premi e riconoscimenti internazionali e giurata a concorsi del calibro del Pritzker Architecture Prize, ha firmato il Padiglione spagnolo all’Expo di Shanghai, il Parlamento scozzese, il Mercato di Santa Caterina e il Parco Diagonal del Mar a Barcellona, solo per citare alcuni progetti.
L’avventura professionale (e privata) di Benedetta Tagliabue comincia negli anni Novanta al di là dell’Atlantico, e per la precisione alla Columbia University di New York, l’ateneo dove si era recata per approfondire la tesi e dove Enric Miralles – l’enfant terrible dell’architettura spagnola – stava concludendo il suo incarico di docenza: due anime affini che si riconoscono grazie alla comune passione per l’architettura, e che tornano in Europa nel 1994, per poi fondare il loro studio a Barcellona (EMBT nasce dalle iniziali dei loro nomi). Purtroppo nel 2000, a soli 45 anni, Enric se ne va. Rimasta sola, con due figli piccoli, Benedetta riesce comunque a concludere tutti i lavori già avviati, senza tradirli, e a iniziarne altri. Molti altri.
Oggi lo Studio EMBT e la Fondazione Enric Miralles, nata nel 2014, sono diventati dei vulcanici incubatori di idee dove una quarantina di giovani talenti da tutto il mondo si alternano nella progettazione: un ambiente di lavoro multiculturale che si propone come punto d’incontro fra tradizione e innovazione e progetto radicato nella storia ma calato nella contemporaneità e pieno di vita. Proprio come lei.
Italia e Spagna: dove si colloca Benedetta Tagliabue?
Direi in entrambi i Paesi ma, col passare del tempo, sento che le mie vere radici diventano sempre più profonde. Al momento è l’Italia che mi attrae di più: dopo tanti anni vissuti in Spagna, avverto forse un po’ di nostalgia.
Quali sono, oggi, le priorità di fronte a un progetto?
Come italiana, ammiro profondamente l’approccio universale tipico dell’umanesimo, e sono contraria all’idea di circoscrivere tutto il lavoro dell’architetto a una singola specializzazione. La sete di conoscenza, la voglia di crescere e sperimentare sempre cose nuove trovano nutrimento nella flessibilità, che consente di affrontare una sempre maggiore varietà di compiti e obiettivi, rendendo ogni nuova esperienza un’opportunità per espandere sempre di più gli orizzonti. La formazione classica di noi architetti italiani – e in Spagna non è molto diversa – ci insegna la versatilità: come si diceva un tempo, si deve saper gestire tutto, dal cucchiaio alla città. Ed è proprio questo sguardo aperto a 360° che permette di leggere il reale da angolature differenti, focalizzandoci anche sul dettaglio, che magari su una scala ampia rischia di sfuggire. In un’epoca di specializzazione spinta, dove ognuno è abituato a fare solo un pezzo del tutto, imparare un metodo è essenziale perché aiuta a sviluppare una mentalità sistematica e fa sì che si possano affrontare sfide con prospettive più aperte e creative. Oggi più che mai, serve un pensiero eclettico e profondamente trasversale che permetta di adattarsi a qualunque contesto e di trovare di volta in volta soluzioni originali e innovative. Per un’idea sempre più aperta del mondo della progettazione, un percorso di conoscenza che non ha mai fine.
Dall’Università a Venezia all’esperienza di vita e di lavoro con Enric Miralles: attraverso quali incontri ha preso forma il suo percorso?
I miei insegnanti in IUAV – Franco Rella, professore di estetica, Massimo Scolari di disegno, Francesco Dal Co e Marco Tafuri, due storici il cui curriculum richiederebbe un trattato – hanno avuto un ruolo fondamentale nel mio percorso personale e professionale: grazie alle loro prospettive aperte e critiche, ho sviluppato una visione profonda dell’architettura. Anche se il punto di svolta per me è stato l’incontro con Enric Miralles, che è stato il mio grande amore e anche il mio mentore. Con Enric ho scoperto i maestri della scuola spagnola, e questa esperienza ha arricchito notevolmente il mio approccio al design e alla creazione architettonica. In fondo, anche questo è un un modo per plasmare lo stile attraverso la storia: una pratica molto comune tra gli architetti della mia generazione, anche in Spagna. Dove peraltro le basi della formazione partono ancora e sempre da Le Corbusier.
Parliamo degli ultimi lavori e dei cantieri in progress.
La Stazione Centro Direzionale della metropolitana di Napoli, anche se non è proprio una delle nostre ultime opere, ha preso avvio nel 2003, poi ci sono stati un po’ di disguidi ma ora la fine del cantiere è vicina. Napoli è una città ricca di tradizioni culturali profonde, che risalgono a secoli fa: le strade strette e tortuose del centro storico, i mercati vivaci e i quartieri popolari vivono un forte contrasto rispetto a quest’area fatta di grattacieli, uffici, banche e strutture commerciali, dove sbuca dal sottosuolo la Linea uno. Il nostro intento era quello di creare un ponte tra passato e presente, e lo abbiamo fatto costruendo un grande tetto ondulato in legno che proietta ombra, e aggiungendo tanto verde: un modo per rianimare una zona di uffici pubblici e trasformarla in una piazza sostenibile, dove la gente possa ritrovarsi e stare insieme. Ora siamo anche riusciti a coinvolgere un giovane artista per arricchire la copertura con un lavoro che sarà visibile da tutti gli edifici attigui. L’altro progetto italiano che mi sta molto a cuore è il Parco del Mare di Rimini, un percorso integrato nella natura per godersi il mare, oggi occultato da migliaia di costruzioni. La spiaggia una volta era organizzata in modo molto rigido, con gli hotel allineati sul lungomare e una zona di carico e scarico tra gli alberghi e la battigia: con il nostro intervento, abbiamo trasformato questa fascia in uno spazio naturale armonioso, collaborando anche con un team di paesaggisti per creare un percorso di rinaturalizzazione di circa otto chilometri, dove si potrà passeggiare, andare in bicicletta e godersi la vista del mare.
Quanto è importante il rapporto con la natura?
Negli anni, ho sviluppato una forte passione per il design del paesaggio, specialmente lavorando su parchi e su spazi pubblici. Il mio obiettivo principale è sempre stato quello di integrare la bellezza del creato nei miei progetti, e collaboro spesso con professionisti esperti del verde, per assicurarmi che la flora diventi un elemento integrante del contesto costruito: è un po’ quello che è accaduto nel quartiere Hafencity ad Amburgo, dove stiamo trasformando l’antico porto sull’Elba in una città a misura d’uomo. Questo progetto ci ha offerto l’opportunità di definire diversi luoghi che rispecchiano le esigenze delle persone e quelle dell’ambiente circostante. Ovviamente il cuore pulsante di ogni iniziativa architettonica rimane l’uomo: anche quando scatto fotografie, mi piace catturare l’umanità nei luoghi, perché credo che la relazione tra la gente e la terra sia fondamentale. In fondo, costruire è un dei tanti modi per creare relazioni, anche sociali. È un tema che mi è caro e che affronterò a ottobre quando sarò ospite della Biennale di Pisa (La Città condivisa. L’architettura per un nuovo equilibrio sociale, dal 13 al 29 ottobre, ndr), che quest’anno pone al centro dell’attenzione proprio l’aspetto del vivere insieme e il tema dell’architettura come strumento per fare comunità.
In che modo i diktat della sostenibilità stanno influenzando il mondo della progettazione?
La sostenibilità non è un concetto che si può banalizzare, non si tratta solo di risparmiare energia e di usare materiali eco compatibili: è indispensabile capire come un edificio influenzi la vita delle persone e delle città. Ci troviamo di fronte a un tema di coscienza, imprescindibile, che non si risolve riempiendo gli spazi urbani di contenitori avveniristici, magari tutti vetrati e resi efficienti attraverso accorgimenti complessi. Sostenibilità significa pensare alla vita della città, alla vita delle persone. E, a questo proposito, ho notato che soprattutto in Spagna sta prendendo piede una nuova estetica della sostenibilità, che valorizza l’autenticità e la semplicità del costruito. Per fare un esempio, nella casa nel quartiere di Barcellona La Clota abbiamo usato dei mattoni in facciata, come a voler raccontare un lavoro non finito ma che allo stesso tempo riflette la ricerca di soluzioni di costruzione ispirate al riuso e al riciclo. In questo modo, abbiamo dato forma al desiderio di staccarsi dalla perfezione simmetrica e di abbracciare l’asimmetria e la naturale complessità dei processi ecologici.
Materiali preferiti?
Amo il legno: è un alleato silenzioso nell’ambito della sostenibilità, un custode della nostra terra e della tradizione. E poi c’è la ceramica, un altro materiale estremamente versatile che ho impiegato anche per il Mercato di Santa Caterina di Barcellona. All’epoca, quando l’ho disegnato, ero quasi spaventata dalla mia audacia cromatica, ma quando ho visto l’esultanza di mia figlia di fronte al progetto finito, ho capito che quella era la strada giusta. In generale mi piace sperimentare, e spesso parto proprio dalla materia per farlo: è successo anche con il vimini intrecciato del Padiglione Spagna all’Expo di Shanghai, che ha vinto il RIBA, Royal Institute of British Architects nel 2010. Adesso stiamo testando tessuti realizzati con minerali, come per esempio il basalto, che offrono maggiore durabilità e resistenza. In questo senso, la tecnologia ci permette di progredire e di risolvere problemi complessi, mentre la tradizione spesso rappresenta l’armonia con l’ambiente. Quando riesco a unire queste due forze, prendo la saggezza del passato e la combino il presente e con il futuro.
Qual è il ruolo del colore in architettura?
Non sopporto più la monotonia dei grigi, dei bianchi e dei neri: preferisco le sfumature che infondono vitalità agli spazi. Quando immagino un nuovo spazio, ogni angolo deve essere permeato di pigmenti. Cito di nuovo il mercato di Santa Caterina, che proprio grazie al colore ha avuto la capacità di risvegliare emozioni in me, in mia figlia e in tante altre persone che hanno apprezzato questo lavoro simile a viaggio attraverso le tinte del Mediterraneo. Quelle sfumature che, nonostante le mie radici brianzole, continuano ad affascinarmi, perché sanno celebrare la vita e la gioia.