Marco Piva è un vorace esploratore del mondo.E l’esito dei suoi viaggi e delle sue ricerche si traduce in progetti visionari: fra i tanti, l’Excelsior Hotel Gallia a Milano, il porto di Dubai e una nuova super fabbrica di penne deluxe in Cina.
Una delle firme dell’architettura italiana più affermate a livello internazionale, cui si guarda per capire come evolve il mondo dell’ospitalità. I suoi lavori dimostrano una sensibilità estrema nei confronti della modernità, e sono sempre frutto di assidue ricerche sui caratteri formali e funzionali degli spazi, sulle tecnologie e sui materiali. Di questo e altro parliamo con Marco Piva, che abbiamo incontrato nel suo studio milanese.
Ogni storia ha bisogno di un inizio. Come è cominciata la sua?
Un giorno mio padre mi presentò un signore, dicendomi che era un grande architetto: si trattava di Gio Ponti. Io, piccolissimo, rimasi colpito da questo personaggio così particolare e così carico di energia, al punto che da quell’incontro cominciò a maturare in me l’idea di specializzarmi, un giorno, nelle discipline legate al progetto.
Il suo Studio di Milano ha filiali in tutto il mondo: dalla Cina agli Emirati Arabi, dall’India alla Russia, dal Quatar agli Stati Uniti. Qual è, al momento, la sede in maggiore espansione?
A Dubai stiamo lavorando a un complesso di residenze private di grande prestigio e ad una proposta per Dubai 2020, poi abbiamo uno studio molto attivo a Mumbai, dove stiamo realizzando un piccolo grattacielo affacciato sull’Oceano Indiano. Shanghai è una base operativa importante e strategica per lo sviluppo di progetti di grande scala. Los Angeles è per me un contesto molto interessante, perché oggi nella metropoli californiana il design e il progetto con il taglio italiano che il mio studio propone, sono fortemente attrattivi ed hanno considerevoli potenzialità. Il Paese dove la nostra crescita è maggiore è però la Cina, con la quale abbiamo ritmi di lavoro frenetici e dove proponiamo nuovi progetti a cadenza quasi settimanale. Siamo una piccola realtà se messi a confronto con i grandi studi internazionali, ma siamo molto veloci e convincenti nel mettere a punto le nostre proposte, sempre profondamente legate alla cultura del progetto e non solo all’efficienza realizzativa. E il nostro approccio, che combina l’attenzione umanistica con quella tecnologica, in questi territori ha veramente una grande presa. Anche l’Italia, dove stiamo lavorando con committenti di alto livello, come Generali, Marriott, Starwood e Radisson, sta crescendo molto, ma devo dire che come impegno progettuale il Far East, gli Stati Uniti e il nostro Paese sono tre realtà che si equivalgono.
Lei spazia dall’architettura all’interior decoration fino al puro disegno industriale. Qual è il segno a cui non rinuncia mai?
Qualunque sia la mission, per me è fondamentale dare valore all’attività di progetto. A supporto del progetto commissionato dal cliente, noi forniamo sempre uno studio, un’indagine, un’analisi del territorio che lo supporti e lo arricchisca. Che sia un edificio, un hotel o un interno, l’attività di ricerca collaterale è appassionante sia per il committente che per noi che la elaboriamo, perché rappresenta per tutti quel valore in più, spendibile ad altri livelli che non sono solo quelli economici, ma anche quelli della cultura.
Affrontando temi così vasti e articolati, come organizza il suo lavoro?
La centrale operativa è a Milano, divisa in tre sezioni: una impegnata sui temi dell’urbanistica e dell’architettura, un’altra sull’ interior design, una terza sul design del prodotto. C’è un dialogo intenso tra chi fa architettura e interior: i nostri clienti ci chiedono lo sviluppo completo ed in continuità del progetto, che ritengo sia un fattore strategico per il successo finale di un’opera. Questa nostra capacità di interconnessione è un vantaggio per noi nel mercato internazionale perché, tendenzialmente, la visione anglosassone separa le fasi progettuali per funzionalità, mentre noi, formati nella cultura europea della traslazione e del trasferimento dei dati e delle informazioni, le progettiamo insieme. Non ultimo, ci occupiamo anche della ricerca sui materiali: come innovarli, come lavorarli, come combinarli
Cosa ricava dall’incontro con altre culture?
Dalla Cina, che è un luogo dove ancora oggi c’è un fermento incredibile, abbiamo imparato ad adeguarci alla velocità di concezione ed esecuzione dei progetti, e a calibrare al meglio le modalità di presentazione e di esposizione del progetto perchè possa essere compreso e sviluppato in modo adeguato.
In alcuni casi vi è data l’opportunità di costruire ex novo. Qual è, secondo lei, la responsabilità dell’architetto che crea nuove realtà urbane?
Ho sempre privilegiato la ricerca. Faccio un esempio: Fabrica, il nuovo parco produttivo a Yancheng, in Cina. In questa occasione ci siamo prima di tutto impegnati a definire un concetto comprensibile e condivisibile che potesse costituire la matrice storica del master plan. Partendo dallo studio del territorio abbiamo proposto il concept di “Fabrica” come incrocio e contaminazione culturale e spaziale tra il tessuto “fabric” dei campi e dei canali e la “fabrica”, etimo latino per luogo destinato alla produzione.Ci siamo trovati davanti a un contesto agricolo con canali e campi coltivati che abbiamo cercato di valorizzare e di integrare nel progetto, per creare un luogo che non fosse una mera distesa di capannoni ma che avesse, in un certo qual modo, un appeal paesaggistico, con edifici industriali innovativi e di qualità.
Quali sono i progetti che la impegnano attualmente?
Ad Algeri stiamo realizzando un centro residenziale alberghiero dotato della prima marina turistica del paese, che ospiterà fino a un centinaio di imbarcazioni. L’idea è quella di farla diventare un punto di riferimento sul percorso nautico che va da Gibilterra al Marocco e lungo le coste del nord Africa fino alla Grecia. In Cina abbiamo vinto una gara di progettazione per trasformare un edificio industriale dismesso, dove venivano fabbricate penne stilografiche in metallo, lacca e legno. Costruito negli anni Trenta e interamente rivestito in mosaico di vetro, questo complesso sarà il cuore storico di un grande nuovo quartiere di Shanghai per un milione e mezzo di metri quadri di residenze e di uffici. In California, a Beverly Hills, stiamo lavorando su cinque ville con una superficie che va dai 2.500 ai 3.000 metri quadrati ciascuna, posizionate in un canyon verde in una delle zone più esclusive. Le ville si affacciano con i loro spazi living e le loro infinity pool sulla vista della downtown di Los Angeles.
Dagli alberghi alle abitazioni private: come cambia il tema dell’ospitalità?
Penso di essere stato uno dei primi in Italia a trasferire concetti e valori generati dal progetto di abitazioni all’interno degli hotel: in questo modo ne abbiamo ingentilito e arricchito gli ambienti, trapiantando in ambito alberghiero atmosfere, spazi e oggetti tipici del mondo residenziale. Per ciò che concerne invece le residenze tailor made, abbiamo recentemente vinto a Milano il concorso per “Le Case del Principe”, un edificio con 220 appartamenti molto diversi tra loro dove all’opposto abbiamo trasferito esperienze e idee sviluppate nel settore dell’hôtellerie, soprattutto lavorando sull’ottimizzazione degli spazi e sull’attrattività estetica.
Lei nella sua carriera ha progettato numerosi hotel, un’altra decina è in cantiere o in fase avanzata di progetto: in base alla sua esperienza, come immagina l’ospitalità del futuro?
E quale sarà la risposta degli alberghi rispetto al servizio di Airbnb? Un recente convegno a Roma alla presenza del Ministro delle Politiche agricole alimentari forestali e del Turismo, della Federlegno e della Confindustria alberghi, ha confermato che l’hotel sarà sempre più un punto di riferimento per tutta la struttura turistica. L’albergo, anche quello piccolo a gestione familiare, continuerà ad avere un valore strategico nell’insieme dell’offerta di ospitalità. Certo, negli ultimi anni è esploso il fenomeno degli spazi privati da affittare a tempo, ed è una realtà che va ordinata e codificata. Quello che gli alberghi devono offrire è una grande flessibilità dal punto di servizi, dell’accessibilità, della riconoscibilità in Rete, della qualità dell’offerta. Gli hotel sono da sempre un luogo di mediazione fra culture, quella di chi riceve e quella dell’ospite, e hanno quasi un dovere morale di rendere più agevole e naturale questo tipo di dialogo.
Davanti a un foglio bianco qual è il suo atteggiamento progettuale? Pensa prima a un materiale oppure alla forma che vuole realizzare.
Alla forma, perché è doppia: è un involucro, ma mentre lo disegno sto già definendone anche lo spazio interno, sincronizzando Architettura e Interior.
Cosa la appassiona di più nella vita?
Viaggiare. Sono appassionato anche di fisica e di astronomia, mi piace sognare di viaggiare nel tempo e nello spazio alla velocità della luce. Conoscere paesi e culture diverse. E poi sono fortemente interessato all’Arte, perché credo che senza l’arte la vita sia più povera.
Ha un sogno tutto suo, al di la dell’architettura?
Prendere la barca a vela e fare il giro del mondo.
di Monica Montemartini