E’ un torrente in piena, Francesco Rota. E basta lanciargli l’amo che di questi tempi si lancia un po’ a tutti (“L’intelligenza artificiale le porterà via il lavoro?”), per per avviare un racconto che dimostra come, nonostante la sbornia di tecnologia che annebbia il nostro tempo, la testa, le mani ma soprattutto il cuore dell’uomo non potranno mai venire meno. Classe 1966, prima assicuratore, poi industrial designer, progettista d’interni, docente allo IED, architetto e grafico, con in carnet clienti come Paola Lenti e Desalto, Oluce a Driade, Rota si forma lungo un percorso atipico che gli ha consentito di uscire dai confini della specializzazione per inoltrarsi in territori paralleli. Dove si respira ancora il vero profumo della creatività.
Come inizia la storia di Francesco Rota?
Da bambino mi piaceva tantissimo disegnare. Crescendo – e per accontentare mio padre – sono diventato assicuratore. A 25 anni ho mollato tutto e mi sono iscritto all’Art Center College of Design in Svizzera, a La Tour de Peilz, succursale europea dell’omonimo istituto universitario fondato negli anni Trenta a Los Angeles: in questa scuola, dove mi laureo nel 1994, ho imparato a fare un po’ di tutto, dai prototipi all’art direction, perché l’impostazione americana è quella di preparare studenti che, entrando nel mondo del lavoro, siano in grado di dare risultati subito. All’inizio ho pensato di trasferirmi negli States, ma alla fine sono rientrato a Milano. Non avevo agganci e ho cominciato a offrimi come progettista d’interni. È stato l’amico Gianluca Bernini di Progetti a presentarmi nel 1997 a Paola Lenti, e così sbarco in una realtà stimolante che in quel periodo si occupava di tappeti e complementi. Paola mi chiede di progettare delle sedute, e la prima che le propongo è Linea, una chaise-longue in feltro di lana in cui il tessuto, tagliato al vivo, determina la bidimensionalità e dà consistenza all’oggetto, che nel 2001 si guadagna la menzione d’onore del Compasso d’Oro. Dopo qualche anno ci spostiamo sull’outdoor, quando l’arredamento per esterni era ancora considerato un segmento residuale. Sono cresciuto a Milano in un appartamento con terrazzi e in una casa di famiglia a Zoagli, ma sono anche un appassionato di nautica, e ho ben in mente quale siano l’atmosfera e le prestazioni che deve saper garantire un mobile destinato agli spazi esterni. Per me, quindi, è stato facile avventurami in un’area merceologica dove la scelta del materiale è fondamentale. Lavorare a un tessuto basato sull’intreccio di scotte da vela è stato l’elemento propulsore per inventarsi un mondo ‘fuori’ e per portare il comfort del living indoor in spazi outdoor: è nata così una prima serie di sedute iconiche, come Wawe, Island, Surf e Sand.
Risultato?
Alla fine degli anni Novanta avevo intuito che quella dell’outdoor sarebbe stata una tendenza destinata a decollare. Ormai nelle nostre città non c’è un nuovo building che non disponga di spazi open air, e la pandemia ha spostato ulteriormente l’attenzione sull’importanza degli ambienti esterni, ma con Paola Lenti ci siamo arrivati molto prima. Oserei dire che, per certi versi, il nostro prodotto ha contribuito a dare una spinta a un nuovo modo di concepire il real estate: roof top, terrazze al piano, parchi e giardini arredati come una casa, sia nel residenziale che nel mondo hospitality, sono diventati un must.
Cosa è successo in seguito?
Nel 2012 Lapalma, azienda che produce sistemi d’arredo contract ad alto contenuto industriale, mi offre di gestire un progetto di art direction. Ero titubante ma poi ho accettato, mettendo in campo il pragmatismo appreso all’Art Center. La capacità di essere concreti, organizzati, matematici ma anche visionari, è fondamentale nel lavoro del designer, che deve avere uno sguardo ampio e saper tenere le fila di molti aspetti: il progetto, la produzione, la distribuzione, la corporate identity, la domanda del mercato, cercando se possibile di anticiparla. Il designer lavora dietro le quinte per studiare le dinamiche del gusto e, per farlo, viaggia, frequenta le fiere e le mostre, ascolta i clienti, guarda i cataloghi, ma soprattutto tiene gli occhi ben aperti su altri mondi, non necessariamente correlati con l’universo della progettazione. Per dire: nei primi anni Duemila per Oluce avevo ideato Ibiza, una lampada da esterno dotata di altoparlante, che sfruttava per i collegamenti le tubazioni elettriche già presenti in giardino. Purtroppo non ha avuto gran successo perché troppo avanti rispetto ad un ‘mondo outdoor’ ancora tutto da costruire.
E l’intelligenza artificiale?
Un po’ mi spaventa, perché temo che potrebbe essere utilizzata come una comoda scorciatoia per staccare la spina dal cervello. In questo caso, l’AI ci renderà più omologati, pigri e meno creativi. Perché se un software risolve tutti i problemi – e sarebbe interessante capire come – la fantasia si atrofizza: parlo anche per le aziende, che a un certo punto potrebbero essere tentate di affidare i progetti agli algoritmi per contenere i costi. Certo, l’AI può essere uno strumento meraviglioso per raccogliere dati, confrontarli, migliorare l’attività di ricerca, ma solo se governata dall’uomo. Ginni Rometty, CEO di IBM, ha tradotto l’acronimo ‘AI’ come ‘Advanced Intelligence’: trovo calzante questa definizione, che vede la macchina come un tool creativo che aiuta a migliorare le performance. Tuttavia, per ora l’AI parla alla pancia della gente, la illude di essere la panacea che allevia la fatica, ma nessuna ChatGPT potrà mai sostituire il guizzo umano in campo creativo. Voglio dire: l’idea del tavolo Plano in cemento alleggerito non me l’ha data un computer, il progetto ha preso forma studiando questo materiale, che per esempio viene usato per i caminetti prefabbricati.
Si continua a sottolineare l’importanza strategica delle lauree STEM, presentate come le uniche che consentirebbero di trovare lavoro in futuro: è d’accordo?
Come italiano, amo la diversità che da sempre appartiene al Dna del nostro Paese. Viviamo in un luogo dove ogni 50 chilometri cambia tutto: il dialetto, il cibo, il paesaggio, la temperatura, il modo di coltivare i campi, i colori dei centri storici… Come si può pensare che l’Italia ricominci a crescere solo grazie alla tecnologia? Se un imprenditore si vanta di fare scouting sui social, e magari di qui a breve inizierà anche a vantarsi di far progettare il catalogo all’AI, parte già col piede sbagliato. Una tendenza che vedo in Instagram non è una tendenza: è una moda già vecchia che insegue il mercato, ma non lo crea. Per questo ritengo che l’intelligenza artificiale non spazzerà via il ruolo dei designer, ma probabilmente li alleggerirà di una parte del lavoro, quella più esecutiva e ripetitiva, aumentando così il tempo per viaggiare, relazionarsi, allenare la capacità di osservazione.
Come vede il futuro della professione?
Nei prossimi anni il compito dei consulenti e degli art director sarà soprattutto quello di guidare i committenti nel percorso di valorizzazione dell’identità aziendale, aiutandoli a individuare la forza di un brand e cercando di farlo esprimere al meglio, anche a costo di dire al management che sta sbagliando strada. Cito come esempio la mia esperienza con Desalto, eccellenza italiana nella lavorazione dei metalli. Per qualche tempo si sono allontanati dalle radici del brand e hanno rischiato di annacquare a loro identità: io li ho convinti a tornare a lavorare con l’acciaio, il ferro, l’ottone, l’alluminio e le loro meravigliose galvaniche, con grande apprezzamento da parte dei clienti. Perché negli anni Sessanta i proprietari delle fabbriche di mobili della Brianza venivano in Fiera a Milano, guardavano le collezioni degli altri e tornavano a casa dicendo “Bravi, ma noi dobbiamo fare meglio e di più”, e oggi invece si va al Salone, si posta un milione di volte la stessa immagine dello stesso allestimento, e tutti copiano ciò che hanno visto? Sì, è comodo. Ma alla lunga non paga. Il designer rimane l’unico capace di fornire all’azienda una lettura critica, e può farlo proprio perché non è coinvolto, agisce dall’esterno. Senza rinunciare a essere chirurgico, quando serve.
Un momento importante della sua vita?
La sera del 17 dicembre 2012, quando è bruciato il mio vecchio studio in zona Bocconi, a Milano. Avevo appena accettato la direzione artistica di Lapalma e in poche ore tutta la mia storia è andata in fumo. Dopo un momento di disperazione iniziale, quell’evento mi ha insegnato l’arte della ripartenza. Da allora sono diventato più deciso, diretto, lucido, resiliente. Tutte qualità che nel mio lavoro fanno la differenza.
Chi sono i suoi maestri?
Steve Jobs, che ha saputo innovare mettendo insieme ingredienti in maniera magica: penso ai computer colorati, all’iPhone, ai primi tablet… Poi cito Vico Magistretti e Maddalena De Padova, che hanno incarnato il modello ideale di collaborazione fra design e azienda e fra sensibilità maschile e femminile applicate al mondo dell’arredamento. Infine ricordo Achille Castiglioni per la sua capacità di tradurre in oggetto concreto e funzionale il pensiero creativo, cosa che oggi molti neolaureati spesso non sanno più fare.
Per quale motivo?
Si va perdendo il contatto con la realtà, con i materiali, con gli utensili: tutto sta diventando troppo virtuale. Dovremmo invece tornare a formare dei bravi prototipisti e a frequentare le botteghe di quelli – pochi – che ancora lavorano. Nessun prototipo in 3D potrà mai sostituire l’equivalente in legno, l’oggetto che si tocca, si annusa, si pesa, si muove nello spazio. Si guarda. Un falegname con cui facevo laboratorio all’università mi diceva che il progetto lo correggi prima con l’occhio, e poi con le mani. In effetti, è solo lo sguardo che coglie il difetto e apprezza la grazia di un prodotto: la macchina non ne sarà mai capace. Ecco, si dovrebbe ricreare questo ping pong creativo fra progettista, prototipista e team dell’azienda: ognuno ci mette il suo tassello e il designer riannoda l’intero processo con coerenza. E umiltà.
Molti brand continuano ad affidarsi al gusto di un unico designer: cosa ne pensa?
La smania di mettere la propria firma dappertutto, senza considerate la matrice originale di un marchio per il quale si lavora, non è una buona strategia, nemmeno dal punto di vista commerciale. Chiedo sempre ai miei clienti: volete essere dei trend setter o dei follower? In fondo, ritengo che per certi versi il designer svolga la medesima funzione che aveva il giullare presso le corti medievali: la presenza del jocker, con la sua intelligenza non convenzionale, serviva proprio a fornire al sovrano una visione diversa rispetto alle lettura dei problemi suggerita dai consiglieri ufficiali. Oggi c’è davvero bisogno di designer che abbiano il coraggio di essere critici, di uscire dal mainstream, di usare il sesto senso e non solo i dati sui like. Lo so che è più difficile. Ma è necessario.
L’articolo è disponibile nel numero di novembre/dicembre 2023 di Pambianco Design