La revisione necessaria del sistema design nella visione di Giovanna Massoni. Solo con veri cambiamenti e una rivalutazione del ruolo del progettista si potrà rivalutare un’organizzazione ormai datata.
Giovanna Massoni è Commissario di Maison POC all’interno di Design is Capital a Lille. I temi trattati attraverso i POC (momenti in cui si testa il prototipo di una soluzione per renderne più efficace l’implementazione di prodotti o servizi) si riferiscono ad azioni pubbliche, economia circolare e città collaborativa. Critica il sistema geopolitico ormai radicato nel nostro Paese e propone modelli sostenibili per le piccole-medie aziende.
Tiriamo una riga e facciamo delle considerazioni su quello che è stato il mondo del progetto fino ad ora. In prospettiva, cosa andrebbe modificato in futuro?
Il designer industriale non vuole cambiare obiettivi, non s’interroga sull’utilità di ciò che sta facendo, ma al contrario dovrebbe porsi delle domande: perché il designer del mobile non si è mai occupato di invecchiamento della società, di disabilità? Lo ha fatto, ma raramente. Tutto ad un tratto ci rendiamo conto che siamo tutti disabili, perché una pandemia tocca tutti. La fragilità ci ha fatti reagire e ora c’è voglia di fare. Gramsci diceva che ‘il pessimismo della ragione è l’ottimismo della volontà’. Ragionevolmente vedo un gran nero davanti a noi, ma la volontà e l’azione mi fanno sperare e partecipare. La cosa più orrenda è non trovare il modo per farlo. Il designer ha la presunzione di dire ‘sono utile, do una soluzione’: siamo ancora fermi al XX° secolo, perché è chiaro che non c’è soluzione al problema, o meglio non può arrivare da un solo settore. Il progetto allarga gli orizzonti, guarda ad altri settori, ma non è ancora riuscito a creare una risposta sistemica in tal senso. Il design deve oggi necessariamente allargare il suo campo d’azione collaborando con altri settori, perché ha la straordinaria capacità di mediazione e accelerazione dei processi. Questa parte di incertezza che va sperimentata e testata con le persone, che va contestualizzata e magari riorientata, ce l’ha solo il design come disciplina.
Come potrebbero lavorare meglio insieme, designer e industria? Da cosa partire?
Il designer deve dialogare con l’industriale, ma ha anche il dovere d’innovare nell’azienda. Non nelle forme, ma nel sistema, come dicevano i Bouroullec anni fa. Il designer senza industria non ha nessun valore e viceversa; nel dialogo c’è sempre conflitto ma la sua capacità sta nel raccoglierlo e riorientarlo e se non è in grado di farlo, rimane un artigiano o un artistucolo senza visione. Il problema sussiste e nasce dal sistema sbagliato che deriva dall’insegnamento della disciplina, ancora legata a un modello vecchio.
La chiave è nel progetto?
Nel progetto c’è dinamica, è cambiamento. Il design è una pratica, è un comportamento, non una disciplina e la pratica evolve con le tecniche, le tecnologie. Il progetto oggi deve agire nella collettività, nel contesto, non per se stesso o solo per l’industria. L’era del post-moderno è finita, siamo giunti a una fase nuova simile a quella che si prospettava alla società degli anni ’70 in Italia. Siamo giunti a una fase di transizione: da un lato il design contemporaneo e dall’altro la ricerca pura, il problema è che questi due aspetti del progetto non si incontrano e vanno in conflitto.
Pensi sia necessaria una riorganizzazione del sistema design?
Possiamo guardare a questa questione analizzando il problema con una visione d’insieme. Mancare appuntamenti fondamentali come quello del Salone del Mobile ha una ricaduta enorme in termini economici, sociali, politici e il ruolo di un evento di una tale portata è cruciale. Il Salone in sé ha sulle spalle un passato glorioso, indispensabile e irreplicabile, però è una formula anacronistica. In un sistema economico basato sul consumo, sull’import-export, il Salone è ancora indispensabile perché l’indotto è vastissimo e tante realtà dipendono dalla riuscita di questo evento. Personalmente non ho alternative, ma penso che serva una tavola rotonda attorno a cui si siedano industriali, il Sindaco di Milano, insieme ai protagonisti dell’indotto.Io spero che in futuro il nostro sistema economico possa essere messo in discussione: che sia capitalistica o circolare, sempre di economia si parla, ovvero una gabbia in cui se non funzioni rispetto a certe regole – quelle del profitto – sei fuori. Attorno a questo tavolo si dovrebbero riunire persone con una certa apertura mentale, altrimenti sarà sempre difficile sbloccare la situazione in cui ci troviamo. Credo che molto lentamente e molto faticosamente (dobbiamo ad ogni modo fare i conti con una gestione dello Stato che è pesante e burocratica) ci stiamo ponendo tante domande e forse qualcosa sta per cambiare.
Rimane una visione pessimistica del presente e delle prospettive future…
Io sono pessimista se parliamo della finanza e degli interessi geopolitici, ma speranzosa se penso alle città, ai quartieri, alle comunità. Se parliamo di industria e globalità, credo che intervenire sarà molto complesso perché si dovrebbero compiere scelte che si oppongono a una determinata politica industriale, che ha funzionato fino a ieri. La cosa che mi fa più paura e che mi abbatte molto è constatare che delle iniziative con potenzialità enormi non arriveranno mai alla viralità, perché il sistema geopolitico bloccherà sempre lo sviluppo di progetti rivoluzionari o diversi in cui si parla di bene comune e non di profitto. Certamente rispetto agli anni ’90 dei passi in avanti sono stati fatti, per lo meno ci iniziamo a porre delle domande.
Come ripensare a 360° alla sostenibilità come valore per l’azienda, dall’impatto ambientale al costo del prodotto finale?
L’accessibilità dei prezzi è un problema non risolto e che non si risolverà nei prossimi anni. Di certo quando parliamo di prodotti di qualità parliamo di artigianalità, innovazione, cura. E questo ha un costo, che va capito e accettato. Se entro all’interno di un negozio di arredo low-budget con un carrello, devo capire immediatamente che non sto parlando di design di alto livello, ma di tutt’altro. Poi c’è da valutare un’altra questione: siamo abituati a ragionare nella logica del profitto e il marketing ha impugnato valori come la sostenibilità e l’ecologia da molto tempo, nonostante non si sappia davvero di cosa si tratti. Il marketing è da sempre un’autostrada privilegiata che va nel cuore della gente: se noi (curatori, consulenti) parliamo di sostenibilità ha poco rilievo, ma se lo fa Volvo proponendo il nuovo modello di automobile ibrida, il messaggio arriva. Anche l’industria del mobile si regge su logiche dettate dal marketing da decine di anni, che ormai ha più potere di un direttore artistico.
Se ‘i grandi’ sopravvivono e i ‘piccoli’ rischiano la chiusura, come intervenire?
Serve una revisione del sistema a favore delle piccole imprese, puntando sulla qualità. Tempo fa si parlava di slow-design, ed è un concetto da rivalutare in chiave attuale: l’indotto è meno visibile, ma è strettamente legato al territorio in cui si opera. L’esempio virtuoso in Italia è rappresentato da Slow Food. Grazie alla tracciabilità, il consumatore sa che le aziende del consorzio sono realtà in cui vige una certa responsabilità aziendale e altissima qualità. Anche l’agricoltura è industria e Slow Food ha dimostrato che un sistema simile è sostenibile. Perché le nostre piccole aziende non potrebbero prendere esempio dal modello di Petrini? Non parlo di un ritorno all’artigianato, non avrebbe senso, ma di una dimensione territoriale che non esclude scambi a livello globale. Forse il Salone del Mobile non è posto per le piccole aziende, che devono riorganizzarsi e veicolare la loro eccellenza secondo altre modalità, senza dover competere con i grandi poteri del settore.
di Valentina Dalla Costa