Lorenza Baroncelli nel suo percorso professionale ha potuto sperimentare di persona, e in più nazioni, l’impatto della rigenerazione urbana sulla vita delle persone: dal Brasile alla Colombia, dall’Albania all’Italia, la quarantenne romana, architetto e curatrice, attualmente direttore artistico della Triennale di Milano, ha partecipato a progetti ed esperienze amministrative che le hanno consentito di avere una visione ampia del tema. Ci spiega, a partire dalla sua esperienza, cosa è la rigenerazione e come va intesa, sopratutto in relazione con i cittadini, che ne sono protagonisti (o, talvolta, le vittime). Perché si tratta di un processo sempre complesso, che richiede tempo e visione. Ma, se ben impostato, dà risultati straordinari.
Partiamo dai fondamentali: cosa è la rigenerazione urbana?
Compiere un’azione di rigenerazione significa occuparsi del tessuto edilizio già esistente e capire come adattarlo alle mutevoli trasformazioni di una società e di un contesto storico politico. Non si tratta solamente di risolvere problemi ereditati dal passato, ma di trasformare il territorio per costruire il futuro delle città. Quindi la rigenerazione non è mai uguale a se stessa, perché è strettamente connessa al luogo, al momento storico, alle condizioni politiche e amministrative. È da fare sempre con la collaborazione della cittadinanza, il che non significa solamente far partecipare le persone interessate al progetto. La partecipazione ha potenzialità molto più ampie: è uno strumento per rendere consapevoli le persone della complessità delle azioni, passaggio fondamentale per favorire la rigenerazione. Saranno poi la politica e l’architettura a prendere le decisioni specifiche. L’idea di partecipazione a cui spesso la politica fa riferimento è più che altro una scusa per non prendere delle decisioni.
La sua prima prova di rigenerazione sul campo è stata dieci anni fa in un’area tra le più difficili al mondo, la Colombia: ci vuole raccontare come è andata?
Mi avvicinai a quei territori a partire dalla mia tesi di laurea. Nasco come progettista urbanistica, mi sono laureata a Roma 3 con una tesi sul rapporto tra il conflitto armato e la crescita della città a Bogotà, in Colombia, con relatore Stefano Boeri. Dopo aver lavorato un anno in Brasile con la Segreteria de Habitaçao di Sao Paulo (edilizia pubblica) sulle politiche di trasformazione degli insediamenti informali nel mondo, ho trascorso due anni e mezzo in Colombia co-dirigendo lo studio di architettura di Giancarlo Mazzanti, una personalità estremamente interessante e uno dei protagonisti del programma avviato da Sergio Fajardo. Il matematico che divenne sindaco di Medellin nel 2003, aveva avviato le politiche di rigenerazione delle zone più complicate, riuscendo a reagire a una città data come insanabile, preda allora dei narcotrafficanti e dei gruppi paramilitari come le Farc. Il programma poi si è allargato anche a Bogotà.
In cosa consistevano queste politiche?
Fajardo decise di partire con la rinascita di Medellin attraverso la bellezza, secondo il principio che ricchi e poveri hanno diritto allo stesso livello di bellezza. Avviò la costruzione di un edificio pubblico in ogni quartiere disastrato di Medellin, come strumento per combattere la malavita organizzata e la delinquenza. Architetti locali e internazionali vennero chiamati a costruire edifici pubblici. Questa operazione ha avuto sulla città un effetto importante, con la legalità rappresentata da questi edifici che tornava all’interno dei quartieri in mano alla malavita. Il risultato è che a partire da questi interventi, gli abitanti delle case intorno riverniciavano le pareti, come per un istinto spontaneo che li portava ad ambire a quel livello di qualità. Questo a cascata aveva impatto su tutto il quartiere. Con Mazzanti abbiamo continuato a lavorare in questa direzione: ho seguito la costruzione di un ospedale pubblico e la copertura di un campo da calcio a Bogotà, El Bosque de la Esperanza, in una favela, finanziato da Fundación Pies Descalzos fondata da Shakira. Ricordo che portai il giornalista Michael Kimmelman del New York Times a visitare il campo da calcio e durante la visita ci fu una sparatoria! È innegabile che ci sia ancora tanto lavoro da fare, ma a partire da quella copertura dello stadio il livello della qualità culturale del quartiere è in fase di miglioramento. Spesso nei contesti più complicati si possono sperimentare processi virtuosi da replicare in altre parti del mondo. Questo, certamente, lo è stato.
Dopo queste esperienze importanti e, in un certo senso, estreme, come ha affrontato l’incarico di assessore alla rigenerazione urbana a Mantova, una piccola città italiana con un patrimonio storico eccezionale?
Mattia Palazzi, sindaco di Mantova, nel 2014 mi chiamò come assessore alla rigenerazione urbana, progetti e relazioni internazionali, marketing territoriale e arredo urbano. Palazzi scelse una strada interessante, quella di separare la rigenerazione urbana dall’urbanistica. Oggi purtroppo l’urbanistica si occupa quasi esclusivamente di risolvere delle cause del passato, legate a malfunzionamenti dei piani regolatori, e gli assessori sono costretti a spendere il loro tempo tra le aule dei tribunali a risolvere questi casi annosi. Mattia Palazzi voleva avere una figura che si occupasse di fare trasformazione tecnologica, cultura, welfare, per costruire la città del futuro e progettare la bellezza. Un esperimento che risultò vincente: Mantova si è posizionata tra le città protagoniste di nuova idea di rigenerazione urbana.
Ci fa qualche esempio?
Uno dei più interessanti è quello delle Pescherie di Giulio Romano, un complesso del 1536 progettato dal discepolo di Raffaello che fu prefetto all’architettura durante il periodo dei Gonzaga. Affacciava sul rio di Mantova, un rio che univa il Lago Inferiore e quello Superiore. Il complesso edilizio, bellissimo, era stato abbandonato da tanti anni nonostante l’area del centro storico fosse Patrimonio Unesco, perché l’amministrazione pubblica non aveva le risorse per mantenerlo. Negli anni si era avviato un processo di degrado, ci vivevano albanesi, pescavano abusivamente i pesci siluro, non era aperto al pubblico, né controllato, c’era anche un problema di sicurezza strutturale. L’amministrazione precedente l’aveva messo nel piano vendita per duecentomila euro. Bisognava salvare il complesso ma non c’erano i soldi per farlo. Ci siamo resi conto che bisognava costruire l’interesse economico perché degli attori privati si facessero promotori di questo miglioramento senza che il bene diventasse privato, ma grazie a queste risorse economiche ritornasse a essere patrimonio della città.
Quale strategia avete adottato per ottenere questo obiettivo?
Abbiamo capito che bisognava accendere un interesse tra i cittadini per costruire un valore economico su quel complesso, così abbiamo semplicemente re-illuminato le Pescherie, partendo dall’idea che i cittadini ricominciassero a vederle. Negli anni era divenuto un pericoloso luogo di spaccio e i mantovani non lo attraversavano più. Nelle città il primo controllo, al di là delle forze dell’ordine, è la presenza dei cittadini: volevamo che tornassero a vedere quella parte di città. Oltre ad illuminarlo, abbiamo messo sul rio, che non era più navigabile dal Dopoguerra, una barca per dare la possibilità a tutti di vedere il complesso e la città da un diverso punto di vista. L’operazione di inaugurazione venne fatta durante la cerimonia di Mantova Capitale della Cultura nel 2014. L’iniziativa doveva durare un mese ma è stata prorogata per sei mesi, perché le persone continuavano a chiedere di navigare sul rio per vedere le Pescherie. È costata complessivamente duecentocinquantamila euro, di cui solo settantamila il per il Comune. Abbiamo coinvolto iGuzzini, che ha sponsorizzato i corpi illuminanti, Tea Energia, la partecipata che si occupa dell’illuminazione pubblica, ha finanziato tutti i lavori temporanei non strutturali e il Comune ha pagato progettazione e assicurazione. L’operazione ha generato così tanto consenso che tutte le attività illecite si sono automaticamente eliminate. I cittadini hanno ricominciato a camminare in quella parte di città, si è costituita la Fondazione Le Pescherie di Giulio Romano che si è occupata del fundraising per avviare il restauro. Abbiamo stralciato il complesso dal piano delle alienazioni, le Pescherie sono rimaste bene pubblico e le abbiamo date in concessione all’Associazione per i prossimi trent’anni, dal momento che i costi del restauro sono pari al costo dell’affitto annuale per 30 anni.
Un lieto fine, quindi?
I restauri sono terminati e il complesso è stato riaperto. Re-illuminare le Pescherie ha avuto un impatto immediato sulla sicurezza e ha permesso ai cittadini di comprendere il valore dell’intervento. Trasformare un edificio ha tempi sempre più lunghi rispetto al mandato di un sindaco. I sindaci si devono confrontare con il mandato di cinque anni mentre il territorio ha tempi più lunghi. I cantieri generano malcontento e spesso è il sindaco seguente a beneficiare dei risultati. Avere fatto comprendere ai mantovani, in forma temporanea, che il sacrificio avrebbe portato a un risultato futuro, ha favorito tutto il processo di rigenerazione.
Quale è la sua opinione sui nuovi modelli di città e sul dibattito nato dall’esperienza della pandemia?
Non credo molto all’idea che nuovi modelli di città siano risolutivi. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un susseguirsi di crisi: economica, migratoria, climatica, pandemica. Ogni volta abbiamo cercato modelli di città diversi, ma dopo averli costruiti (e il processo dura anni) si presenta un ‘altra crisi, e la necessità di altre risposte. Ad esempio, Milano è una città che ha vissuto sulla densità e ne ha fatto la sua ricchezza, che però si è rivelata una debolezza durante la pandemia. Ha trascurato la presenza di spazi verdi e vuoti che consentissero di decongestionare l’aria e abbassare la pressione antropica. L’importante è dotare le città di una grande flessibilità per rispondere a emergenze che saranno sempre più frequenti e imprevedibili. In questa riflessione generale rientra anche il tema della prossima Mostra Triennale a Milano, Unknow Unknowns. An Introduction to Mysteries, in programma nel 2022.
di Antonella Galli