Architetti e designer, le due facce della progettazione partono da una formazione che unisce tecnica e creatività. La professione si snoda, poi, tra scelte individuali, acquisizione di competenze sul campo e voglia di sperimentare.
Come formarsi per affrontare il mondo del professionismo? E’ meglio esercitare all’interno di studi (di architettura o di design) e aziende, oppure lanciarsi nella libera professione? Come funziona il rapporto tra creativi e imprese? Quali limiti emergono e come si può migliorare? Per cercare di rispondere a queste domande abbiamo incontrato i tre attori di questo mondo: una designer, Valentina Folli, un architetto, Roberto Paoli, e un imprenditore, Daniele Livi.
Genesi di un creativo
genesi di un creativo L’architetto sviluppa progetti di grande scala (città, quartieri, edifici pubblici e residenziali), il designer ha una formazione trasversale e di scala ridotta, spaziando dalla progettazione di prodotti (luci, mobili, accessori) alla grafica nella comunicazione. Se poi l’architetto è un appassionato di interior design, il confine fra le due professionalità si fà più labile. In passato, chi voleva diventare architetto o designer frequentava la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano che partiva da una branca dell’architettura per approdare al disegno industriale. Oggi, con il nuovo ordinamento, chi preferisce il design si iscrive alla facoltà dedicata suddivisa in design del prodotto, della comunicazione, della moda e degli interni. Valentina Folli, libera professionista nel settore design di formazione internazionale, è partita da lì. “L’università italiana – esordisce la Folli – ha un approccio molto teorico e tecnico. E’ una base fondamentale che però va integrata con la pratica, la realizzazione di prototipi. Sentendo questa necessità ho deciso di frequentare un Master in European Design che mi ha portata a vivere per un anno a Helsinki, dove ho studiato ‘industrial e strategic design’, e per un anno a Colonia, dove mi sono dedicata al ‘communication design’. In questo periodo ho capito che è possibile affrontare il design in modi diversi e avere un rapporto più diretto tra docenti e studenti”.
Tra scuola e lavoro
Prima di uscire dalle scuole si avviano le esperienze di stage e internship presso studi o aziende per sperimentare i diversi segmenti (grafica, interior, furniture, illuminazione). “E’ il momento in cui si scoprono i propri talenti e i propri interessi – prosegue la designer – che possono essere consolidati con master dedicati. Un’importante vetrina sono le aree dedicate ai giovani talenti all’interno delle fiere internazionali, dove le imprese svolgono un lavoro di scouting individuando e chiamando a collaborare i giovani più promettenti”.
La professione oggi
Uscito dal Politecnico, dalle università dedicate al design e da eventuali master, il professionista, sia esso architetto o designer, si trova di fronte alla sua prima importante scelta: tentare la strada della libera professione oppure entrare in uno studio o in un’azienda. “La seconda via – spiega l’architetto Roberto Paoli, che con il suo studio collabora con diverse aziende italiane dell’arredamento e del lighting – può sembrare più ‘sicura’ poiché la realtà strutturata protegge il designer nei momenti critici del mercato; allo stesso tempo, permette di imparare molto più velocemente i trucchi del mestiere grazie al contatto diretto con architetti esperti. Il ‘contro’ è che spesso il lavoro può risultare meno stimolante, un po’ più da ufficio, un po’ meno libero”. Il secondo step, per chi lavora all’interno di strutture è diventare senior. Per chi svolge il mestiere da ‘esterno’ il lavoro consiste nel proporsi direttamente alle aziende attraverso i propri progetti, con disegni o prototipi. “Io ho iniziato così – prosegue Paoli – collaborando con aziende satellite della mia zona (le Marche, ndr), da Tonelli a Tucano, da Fiam, che è stata il mio trampolino di lancio, fino alle collaborazioni più recenti con Artemide, Nemo e Calligaris, solo per citarne alcune”.
Royalties e prodotti che non funzionano
Le aziende italiane tendono a riconoscere il lavoro dei designer essenzialmente tramite il pagamento di royalties post-vendita. Un atteggiamento che si sta rafforzando in questo periodo di crisi. All’estero, invece, c’è un atteggiamento più attento e ‘matematico’ in merito al riconoscimento del lavoro dei designer e ai loro compensi. “Le aziende straniere, svizzere e francesi – racconta Paoli – affontano i creativi con sincerità dichiarando quando un prodotto proposto non piace o non funziona, senza per questo inficiare la collaborazione tra le due parti. Molte realtà italiane, invece, hanno più difficoltà in questo senso, con conseguenti perdite di tempo”.
Dall’idea al prodotto finito
L’idea giunge all’azienda in modi diversi: con l’auto-promozione di un designer, con lo scouting da parte di aziende di creativi più o meno noti, tramite briefing dedicati o proposte libere. Una volta selezionato il progetto, arriva lo step più difficile: renderlo realizzabile senza snaturarlo, ovvero mediare tra creatività e tecnica. Segue la produzione. “Un ruolo decisivo lo ricoprono i fornitori – approfondisce Folli – che grazie al loro know-how possono proporre la soluzione giusta per risolvere eventuali problemi di realizzazione. L’ultimo passo consiste nell’abbinare al prodotto il giusto prezzo, una scelta delicata perché se non corrisponde alle aspettative del mercato il prodotto può non garantire le vendite attese”. “Il tempo è l’indice di correttezza di un prodotto, per realizzarlo servono da mesi ad anni – indica Folli – è importante che l’azienda consolidi un rapporto di fiducia con il designer, che a sua volta deve creare un prodotto che duri nel tempo”. “La nostra azienda – afferma Daniele Livi di Fiam dal suo punto di vista imprenditoriale – predilige il prosieguo di collaborazioni con designer di fiducia, ai quali a volte sottoponiamo nostre nuove lavorazioni o materiali per far sì che individuino una possibile traduzione in prodotto. Essendo una realtà di ricerca siamo anche aperti a conoscere nuovi talenti. L’importante è che da parte del creativo ci sia volontà, umiltà e apertura al confronto. Alle nuove leve piace mettersi in discussione, non si può dire lo stesso di alcune archistar, con le quali anche a causa della distanza si presentano difficoltà di rapportualità”. “Al creativo l’azienda chiede l’idea – aggiunge Paoli – se poi il libero professionista si rende disponibile a collaborare con l’ufficio tecnico si parla di plus”.
Il futuro sarà condividere
“Quando penso al futuro della professione, immagino di creare uno studio allargato e leggero nella struttura – ipotizza Folli – che favorisca l’incontro di professionisti con competenze e idee diverse sotto il cappello di un progetto condiviso. Credo nel teamwork e nella sua crescita. Il futuro è condividere le esperienze per perseguire un obiettivo comune”.
Emergenza brevetti
Nell’incontro tenutosi lo scorso 29 novembre, dal titolo ‘BrevettiamociTM’, l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Roma e Provincia ha affrontato il tema della proprietà industriale.
“Gli architetti sono senza dubbio i professionisti più creativi e meno concreti per quanto concerne la tutela di disegni finalizzati alla produzione industriale – ha dichiarato il Presidente del Valore delle Idee, architetto Paolo Anzuini – Durante le fiere/mostre che si svolgono in tutta Italia, il 90% dei prodotti/prototipi esposti nelle sezioni sperimentali e innovative non sono tutelati. La maggior parte degli architetti non conosce il tema della proprietà per diverse ragioni, prima fra tutte l’inesistenza di formazione durante il corso di studi universitari. Il nostro Paese non ha ancora intuito che il concetto principale del brevetto non si riscontra con i numeri, ma con la qualità dei depositi. Possiamo brevettare centinaia di invenzioni, ma se nel processo industriale se ne avviano circa il 20-30%, i restanti brevetti, per la società e il progresso tecnologico, non producono effetti innovativi e vanificano risorse e contributi messi a disposizione dallo Stato. Un buon portafoglio brevetti può essere percepito dai partner commerciali, dagli investitori, dagli azionisti e dai clienti come una dimostrazione dell’alto livello di qualità, specializzazione e capacità tecnologica dello studio di architettura, elevandone l’immagine positiva”.
Di Paola Cassola