Ha appena vinto il concorso per il restyling della Cavallerizza Reale di Torino, uno dei tanti, visionari progetti che costellano la sua già lunga carriera. Cino Zucchi, milanese, boss dello studio CZA Cino Zucchi Architetti, visiting professor in housing and Urbanization ad Harvard e professore ordinario di Progettazione Architettonica e Urbana al Politecnico di Milano, non solo disegna ma scrive, scrive moltissimo, mescolando con nonchalance osservazioni così profonde da competere col De Architettura di vitruviana memoria, e frivolezze che dispensa su Instagram, a conferma della sua innata autoironia. Anche se, quando lo si invita parlare di ‘pelle’ degli edifici, per Zucchi la serietà diventa d’obbligo. E spalanca prospettive inattese.
Quali sono, in architettura, le implicazioni concettuali e le valenze filosofiche della metafora della ‘pelle’ dell’edificio?
L’analogia fra edificio e corpo umano riappare nel tempo in luoghi inaspettati, dalle filastrocche infantili ai trattati d’architettura cinquecenteschi. Andrea Palladio, per esempio, compie una curiosa analogia tra i ripostigli di un edificio e le interiora di un corpo umano, che con il loro funzionamento permettono di manifestarsi alle porzioni ‘nobili’ dei due. Etienne Louis Boullée paragona invece la mancanza di simmetria di un edificio a quella di un volto deforme, Auguste Perret parla del telaio in cemento armato come di uno scheletro che dona ordine ai vari organi funzionali che ospita. D’altronde, la nota illusione percettiva nota come ‘pareidolia’ ci fa talvolta vedere volti ed espressioni facciali nelle facciate delle case con due finestre appaiate. Ma se un edificio antico, con la sua massa in mattoni e pietra degradante verso il cielo, ricorda forse un nudo femminile di Rubens, non vi è dubbio che la rivoluzione funzionalista, in aperta guerra agli eccessi decorativi degli edifici fin-de-siècle, è animata da un ideale ‘pelle e ossa’ degno di un anacoreta o di un monaco buddista. Le monumentali vetrate delle fabbriche e degli uffici del primo moderno presi in giro da Jacques Tati nel suo film Playtime diventano così un elemento autonomo, dotato di una sua fisiologia, di una sua estetica e di una sua meccanica particolare, tanto da creare oggi una specializzazione progettuale un tempo inconcepibile: quella del cosiddetto ‘façade engineer’.
Se paragonassimo il muro di un edificio antico a un tradizionale mantello in loden che risponde a diversi ruoli complementari – proteggere dalla pioggia, isolare dal freddo, schermare il corpo dagli sguardi indiscreti – attraverso un solo tessuto spesso e compatto, la pelle di un edifico moderno potrebbe invece assomigliare a una giacca da sci altamente performante, composta da molti strati diversi, ognuno specializzato per un solo ruolo. Ma al pari di una giacca tecnica, lo strato esterno di un’architettura contemporanea – diventato leggero e per certi versi autonomo – può caricarsi di una dimensione grafica e comunicativa sconosciuta alle vecchie facciate dalla plastica tridimensionale. Nel caso estremo di Times Square, o delle sue trasfigurazioni in film di fantascienza quali Blade Runner, la ‘pelle’ non deve più esprimere l’organizzazione interna ma diventa una pura superficie luminosa e cangiante.
Gli esterni dei fabbricati influiscono sulla percezione dello spazio?
Nel suo delizioso libretto Amate l’architettura, Gio Ponti sostiene che se un edificio classico poteva essere letto come un’alternanza di pieni e vuoti o di luci e ombre, le finestre a filo facciata della sua Montecatini – che nelle sue parole “incielano l’architettura” – trasformano il volume edilizio in un cristallo qui opaco là trasparente, aprendo di fatto una nuova estetica. I quadri di Monet che rappresentano la cattedrale di Rouen alle varie ore del giorno – dove la pietra bianca prende il colore del cielo e dei raggi solari – rivelano peraltro come l’architettura abbia sempre funzionato come una grande ‘meridiana’ che amplifica il succedersi delle stagioni. Le facciate in vetro specchiato che riflettono gli edifici del contesto e il cielo, creando talvolta effetti ‘metereologici’ facilmente instagrammabili, operano in modo analogo, ma rinunciano ad avere una fisionomia propria.
Al di là delle loro necessità tecnica, i coating riflettenti delle facciate a specchio danno all’edificio un carattere di ‘castello magico’ dove l’interno si svela solo al crepuscolo, facendo perdere l’aspetto unitario del giorno e rivelando le innumerevoli cellette di cui è composto. Seppure dotate di un certo fascino, le silhouette illuminate delle capitali globali incominciano a rassomigliarsi tra loro in maniera preoccupante, perdendo il rapporto con il terreno e lo spazio pubblico. Nelle foto aeree di Dubai, le cime dei grattacieli che attraversano il basso strato di umidità che le avvolge assomigliano a tanti dei dell’Olimpo seduti sulle nuvole; i loro interni sigillati e climatizzati corrispondono invece al totale abbandono dello spazio collettivo tramandato per secoli dalla città europea.
La ‘pelle’ di un edificio può riflettere l’identità culturale di una comunità o di un luogo?
Dopo aver vinto la battaglia contro la costruzione massiva attraverso quello che in inglese si chiama ‘curtain wall’ e in francese ‘mur rideau’, la cultura architettonica contemporanea ha in qualche modo riscoperto la dimensione iconica e rappresentativa delle facciate e il loro ruolo di sfondo degli spazi pubblici e della vita collettiva che vi scorre dentro. A tal fine la ‘pelle’, diventata forse troppo anonima e ripetitiva, viene trattata come una superficie che può essere differenziata e articolata da elementi diversi, e deve trovare una maniera per toccare il terreno e aprirsi verso lo spazio comune, articolare la sua altezza attraverso marcapiani, lesene o altri dispositivi architettonici capaci di donare scala, e terminare verso il cielo disegnando il coronamento in maniera significativa.
Dopo l’ubriacatura di ‘blob architecture’ dalle forme strane permesse dall’informatizzazione e dalla parametrizzazione del progetto, la ricerca attuale sembra aver riscoperto una sorta di galateo urbano capace di accogliere e amplificare il senso di appartenenza e scambio reciproco che le comunità chiedono, e che trovano spesso negli edifici del passato. Alcuni dei migliori progetti contemporanei mostrano talvolta un intenzionale retrogusto vintage che va di pari passo con la riscoperta collettiva del ‘moderno gentile’ del primo e secondo Dopoguerra: l’esperienza italiana di Ignazio Gardella, dei BBPR, di Asnago e Vender, di Luigi Caccia Dominioni, di Franco Albini e di molti altri maestri è diventata ormai un riferimento condiviso per gli architetti europei. C’è però da notare che questa tendenza non può e non vuole riprodurre alla lettera l’esperienza del passato, anche perché le tecniche costruttive sono nel frattempo cambiate molto, e la lotta all’emergenza ambientale è diventata un elemento primario di questo nuovo millennio.
Qual è la relazione tra sperimentazione formale e innovazione energetico-ambientale?
L’architettura moderna del secolo scorso mostra una contraddizione vivente: se da una parte trasforma il ritmo di muro e finestra in un ‘pan de verre’, si accorge poi di dover schermare quest’ultimo dall’eccesso di radiazione solare e inventa il cosiddetto ‘brise-soleil’. Non c’è dubbio che la ricerca architettonica contemporanea sia indissolubilmente intrecciata con quella che si potrebbe chiamare ‘climate-responsive architecture’, e che il perseguimento del risparmio energetico e del benessere ambientale guidi il progetto a tutte le scale. Tuttavia, è innegabile che spesso, in fase progettuali, si finisca col vendere come ‘dispositivi ecologici’ elementi che hanno veramente poca influenza sulle prestazioni dell’edificio e hanno piuttosto il fine di generare interessanti tessiture nelle facciate.
Possiamo affermare che al giorno d’oggi esista un’estetica della sostenibilità oppure basta riempire gli esterni con le piante?
Esiste certamente un’architettura che ‘mette in scena’ in maniera più o meno convincente le proprie aspirazioni ambientaliste. Ormai i progetti hanno bisogno del consenso di molti attori per non rimanere sulla carta, e la lotta ai cambiamenti climatici è tra i pochi valori condivisi da tutti gli strati della società e da gruppi sociali anche politicamente distanti tra loro. È quindi evidente che, così come un tempo tutte le società cercavano di schermare interessi individuali dietro il paravento della religione – al grido di ‘Dio lo vuole’ o, come cantava un Bob Dylan giovane e polemico, ‘with God on their side’ – ecco che oggi, in nome di Madre Natura, capita che si portino avanti opere talvolta decisamente mediocri sotto diversi punti di vista.
Del resto, qualsiasi persona che abbia partecipato a una commissione giudicatrice di concorsi o progetti, sa bene come il ricoprire i balconi e le facciate di piante sia ormai uno stratagemma abusato ma capace di mettere d’accordo tutti. Personalmente, credo che la durabilità e la buona costruzione siano, insieme alla continua ricerca sulle fonti energetiche alternative, gli elementi cardine di un’architettura che si confronti con l’ambiente. Quindi, per me un’estetica capace di esprimere il valore odierno della sostenibilità non dovrebbe esagerare con il cosiddetto ‘greenwashing’ ma semplicemente essere in grado di coniugare qualità ambientale, buona costruzione, durevolezza nel tempo e partiti architettonici capaci di generare spazi urbani significativi. Quello che dico non ha niente di nostalgico: piuttosto, cerco di integrare saperi nuovi con pratiche antiche elaborate nei secoli, sperimentazione tecnologica e durabilità dei manufatti.