Se n’è andato il 6 aprile scorso, a 70 anni, l’architetto e designer Italo Rota: uno degli interpreti più visionari e poliedrici della scena internazionale del progetto, ma soprattutto una mente aperta alle più diverse declinazioni della creatività contemporanea. Ricchissimo e multiforme il suo curriculum, dove spicca – fra i lavori più noti e celebrati – il milanese Museo del Novecento, inaugurato nel 2010 al Palazzo dell’Arengario. Ma la firma di Rota si riconosce anche in lungimiranti opere d’urbanistica, come la sistemazione del centro urbano di Nantes e del lungomare del Foro Italico a Palermo, e il restyling di Viale Dante a Riccione, pur senza tralasciare le collaborazioni con il mondo della moda (disegna diverse boutique, un ristorante e un club per Roberto Cavalli), per il settore ricettivo (è l’autore del Boscolo Exedra Hotel di Milano e del Boscolo Palace di Roma), con l’universo dell’arte (innumerevoli, nel corso del tempo, le realizzazioni per la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano) e con il comparto fieristico, che lo ha visto progettista del padiglione Ciudades de Agua all’Expo 2008 a Saragozza e del padiglione del Kuwait per Expo 2015 a Rho-Fiera.
Nato nel 1953 a Milano, dopo aver terminato gli studi superiori e prima della laurea, che consegue al Politecnico di Milano nel 1982, Rota si forma con una ricca esperienza di apprendistato negli studi dei grandi professionisti dl Dopoguerra, in una delle stagioni più effervescenti dell’architettura italiana: giovanissimo lavora accanto a Franco Albini e, all’inizio degli anni Settanta, pratica nell’atelier di Vittorio Gregotti, con il quale è impegnato nel progetto per l’Università della Calabria. Dopo la partnership con Pierluigi Nicolini (in particolare per la rivista Lotus International), si trasferisce in Francia, dove rimane per un decennio (fino al 1995) e lavora accanto a Gae Aulenti, per l’allestimento del Museo d’Orsay e il progetto per gli spazi del Musée National d’Art Moderne del Centre Pompidou; durante il soggiorno d’oltralpe, cura anche le nuove sale della Scuola francese della Cour Carrée del Louvre, oltre alla storica esposizione “Les peintres et le théàtre” al Palazzo dei Papi di Avignone e alla mostra celebrativa per i primi quarant’anni di Christian Dior nella storica sede della Maison in Avenue Montaigne, a Parigi.
“Ci mancheranno le sue idee potenti e appena sussurrate, le sue visioni controcorrente, le sue composizioni ricchissime e sempre intelligenti. Un pezzo della nostra storia, della storia della nostra generazione, della storia di Triennale e della creatività italiana nel mondo se ne va”, ha commentato Stefano Boeri, presidente della Triennale. E, di fatto, con Italo Rota scompare una figura di outsider e d’intellettuale a tuttotondo, capace di affrontare con sguardo disincantato e ineccepibile competenza il tema centrale della complessità, di cui si è nutrito lungo tutta la sua carriera di professionista “futuribile” e, al tempo stesso, antico, eclettico, rinascimentale: non a caso, oltre che progettista, Rota è stato anche saggista, scenografo, curatore, vorace collezionista, assessore per la Qualità urbana del Comune di Milano (con la giunta di Marco Formentini) e attento osservatore delle mutazioni del paesaggio sociale e soprattutto di quello urbano, studiato sempre con la convinzione che il cosiddetto “bello” non sia la categoria privilegiata (e di certo non l’unica) con la quale fare i conti, e che una buona architettura debba lavorare soprattutto sulla curiosità, sullo stimolo e sulla reazione ai fenomeni, naturali e artificiali, che governano il mondo.
Alla fine del 2022, con la ferita della pandemia ancora ben aperta e con il fenomeno di uscita in massa dalle metropoli alla ricerca di natura e distanziamento, Italo Rota aveva richiamato l’attenzione sul valore di un nuovo modo di vivere le città: “La verità è che i distretti urbani non si sono svuotati, ma stanno cambiando le persone che li abitano e le modalità di occupazione degli spazi. Al centro potrebbero migrare i nuovi poli della ricerca scientifica, della genetica, della farmaceutica, tutte attività non invasive, silenziose, a basso impatto ambientale. L’altro grande fenomeno innescato dal Covid è l’improvvisa disponibilità di cospicue superfici a locazione, uffici e capannoni inutilizzati pronti per trasformarsi in sedi per la nuova industria, che ha bisogno di luoghi analogici e fisici, e dunque di hub di sistema adatti ad accogliere non solo i lavoratori ma anche le loro famiglie, gli amici, qualche spazio culturale e commerciale”. Alla fine, aveva sottolineato, “ancora una volta è il pensiero che plasma i luoghi, ma ora si tratta di fornire qualità alla complessità e, per farlo, bisogna dare ascolto alle persone, alle loro esigenze, ai loro desideri. La vera, grande scommessa per chi oggi progetta gli spazi urbani coincide con la capacità di trasformarne la morfologia misurandosi con l’esistente e, se necessario, smembrandolo e ricostruendolo”. È l’ultima lezione di Italo Rota. Ed è più attuale che mai.