La crisi dell’immobiliare e la crescita dei progettisti locali impatta sugli studi di architettura internazionali: in Cina il potenziale c’è ancora, ma il focus ormai si sta spostando sulle aree periferiche del Paese.
Si stendono sempre più lunghe le ombre sulla Cina. La profonda crisi del settore immobiliare, e con essa quella di alcuni top player come Evergrande e Country Garden, fa tremare il Paese. Il blocco delle vendite dei terreni, le difficoltà di movimentazione, gli indebitamenti e la volontà politica chiara di orientarsi verso un mercato interno incidono in modo significativo anche su tutto il mondo della progettazione internazionale. Un mondo che qui ha assistito a decenni di sviluppo incrementale e ha messo le sue firme illustri su alcuni building-simbolo: su tutti quello della sede del network televisivo CCTV di Pechino, progettata da OMA e completata in tempo per i Giochi olimpici del 2008, ma anche lo stadio disegnato da Herzog & de Meuron, così come gli interventi di Zaha Hadid Architects, Foster + Partners, Tadao Ando e Kengo Kuma. Ora quell’ecosistema, di cui fanno parte anche i grandi studi di architettura italiani, si trova di fronte a una sfida nuova. Nel 2011 la popolazione urbana aveva superato quella rurale e il bisogno di case, servizi e infrastrutture ha portato il Paese a produrre in un biennio più cemento di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti in tutto il XX secolo. Dal 1996 al 2013 l’8% dei terreni coltivabili è stato inghiottito dalle città. “A fine 2022 la Cina contava 914 milioni di residenti urbani, contro una popolazione rurale di circa 500 milioni”, ha scritto Cecilia Attanasio Ghezzi, già caporedattore di China Files e autrice della newsletter tematica Appunti sulla Cina, “Per le terre lontane dai centri nevralgici, costruire palazzi significava muovere denaro e occupazione. E le amministrazioni locali hanno venduto terreni agli sviluppatori immobiliari. Si è cominciato a concentrare i cittadini in verticale, a costruire complessi residenziali di lusso. Gli appartamenti aumentavano esponenzialmente anche in aree dove la domanda era inesistente. I risultati sono innumerevoli ‘città fantasma’ che costellano le pianure cinesi. Conglomerati rimasti in gran parte disabitati, costruzioni tirate su con materiali scadenti, che non hanno alcuna possibilità di durare nel tempo. Oggi, con un debito di 330 miliardi di dollari, Evergrande è il simbolo di una crisi economica che prende forma in un momento storico in cui, rivisitando gli slogan in auge durante la rivoluzione culturale, Xi Jinping invita i giovani a ‘ringiovanire le campagne’: solo la regione del Guangdong prevede di mandare 300 mila studenti nelle aree rurali entro il 2025. Ecco qui la fine della classe media: si torna alla vita agra”.
Gli studi di progettazione lanciano l’allarme
“Dopo 23 anni di presenza sul territorio questa crisi che perdura ci fa soffrire. Stiamo lavorando meno, ma soprattutto in città minori, anche se comunque molto popolose”, racconta Massimo Roj, founder e CEO di CMR, società di progettazione integrata. “Del resto la crescita cinese è stata trainata soprattutto dal mercato immobiliare, che ora è quello più colpito. Nel nostro caso, poi, questa contrazione si sente ancora di più perché abbiamo sempre operato per le municipalità con sviluppi urbani importanti. Insomma, oggi abbiamo davanti dimensioni decisamente diverse rispetto a quelle a cui eravamo abituati”. Tra i progetti più recenti firmati dal CMR c’è Xiantao Big Data Valley, realizzato per la municipalità di Chongqing (30 milioni di abitanti). Comprende un’area destinata a uso uffici, integrata da appartamenti, spazi commerciali, scuole, un albergo di lusso e altre strutture per garantire un alto livello di qualità di vita degli abitanti, distribuiti su di una superficie complessiva di 700mila metri quadrati. Lo scopo finale era quello di costruire una comunità avanzata, pronta a fronteggiare le sfide della nuova era dell’Information Technology. “Il lavoro è stato completato nel 2021, c’erano piani di sviluppo ulteriori ma ora è tutto fermo. Siamo tornati indietro di 20 anni, quando in molti proponevano business, ma allo stesso tempo cercavano finanziatori. È un momento difficile, così come lo è chiedere alle aziende italiane di andare a investire in Cina”. Eppure il Paese non ha fermato del tutto i suoi slanci nelle zone periferiche. “Nello Yunnan, distretto lontano, regione povera e principalmente rurale sono arrivati 300 funzionari provenienti dalla città di Shanghai per coadiuvarne la crescita. Qui sono previsti investimenti, lavoro, ammodernamento, tenendo anche conto dei milioni di abitanti che la popolano. Potenzialmente è un mercato ottimo per il mobile italiano”, spiega Davide Conti, progettista italiano di stanza in Cina da oltre 10 anni, design director del suo studio e Founder&Project Coordinator di Italian Design Masterclass (IDM), programma di formazione rivolto ai giovani designer e professionisti cinesi che offre al contempo opportunità alle aziende di presentare le eccellenze Made in Italy attraverso lezioni e incontri incentrati sui temi di interior, fashion e industrial design.
Il programma, nato cinque anni fa, promosso dal Shanghai promotion center for city of design (SPCCD) e ICE/ITA e sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri (MAECI), ha già coinvolto circa 100 realtà italiane. “Il mercato cinese, sicuramente molto cambiato rispetto a quello di 20 anni fa, ha ancora un enorme potenziale, ma necessita di un investimento ben fatto, non solo economico. Le società, per esempio, devono prima di tutto registrare il proprio marchio facendosi aiutare dalle ambasciate e consolati e poi preparare i loro materiali in cinese, bisogna “cinesizzare” la propria comunicazione e affidarsi a professionisti preparati. Noi italiani parliamo di cultura, bellezza, loro di business e numeri. Bisogna dialogare con gli operatori in loco, parlare a una comunità di designer e architetti italiani che vivono qui perché il mercato in Cina si muove ancora molto per relazioni che noi tutti abbiamo e possiamo portare alle nostre aziende”.
Quindi oggi più che mai il punto di partenza è la conoscenza. L’architetto Piero Lissoni, che con il suo studio internazionale Lissoni & Partners ha in essere alcuni progetti di development sul territorio di Shanghai e altri sviluppi residenziali in città più periferiche della Cina, afferma che “il Paese ha un grado di complessità culturale diverso dal nostro. L’unico modo per lavorare qui – e farlo bene – è quello del totale rispetto reciproco. Peraltro nel mio studio, dove la lingua ufficiale è l’inglese, ci sono architetti cinesi che parlano e scrivono in mandarino alto, e così succede per l’area del Middle East con l’arabo o per Israele con l’ebraico”.
Entro il 2030 shanghai si candida a diventare capitale mondiale del design
“La pandemia ha cambiato del tutto le dinamiche, ma già prima di allora è stata espressa la volontà politica e urbanistica di tornare all’idea del villaggio”, commenta l’architetto Andrea Caputo, che nel 2017 ha aperto uno studio e società a Shanghai e da allora ha portato avanti progetti sul territorio cinese, come il recente sviluppo il Community Center a Suzhou, un centro civico nato per diventare un pivot per migliaia di persone. “L’intenzione è stata quella di lavorare su un luogo che diventasse catalizzatore urbano. Il quartiere residenziale non è stato poi costruito, ma lo spazio resta un punto di incontro e scambio per le persone. Oggi si sa che gli alloggi non sono più necessari, il Paese ha un po’ perso il suo dinamismo”. Ciò detto, a Suzhou lo studio ha in progress anche il lavoro di un teatro e di un mercato, mentre su Pechino il masterplan di un complesso scolastico si è arenato con il Covid. “In generale non stiamo attuando una pianificazione specifica sul Paese. Continuiamo a lavorare cercando di ritrovare un buon ritmo. Ora siamo di fronte a un’ottima scena di architetti cinesi. Stanno tornando a casa i figli dei tycoon che hanno studiato all’estero e hanno un livello di linguaggio architettonico ottimo. Quindi insieme a un rilancio dell’approccio rurale c’è in Cina una volontà di valorizzare i propri progettisti. Va detto, con estrema onestà, che la nuova scena italiana, invece, attualmente è molto debole, anche rispetto agli stranieri occidentali, penso a Belgio, Spagna, Portogallo, Olanda. Oggi in Cina lavoriamo meno perché la concorrenza locale è altissima. La ricerca da parte dei cinesi è rivolta al nome, alla firma. Ma oggi all’estero non c’è una traccia tangibile di questo valore, e peraltro il Paese sta chiaramente cambiando direzione”.
Intanto la Shanghai Design Week (SHDW) ha annunciato, in occasione di un evento della London Fashion Week, che il Shanghai municipal people’s government vuole puntare, entro il 2030, a far crescere la città come capitale mondiale del design, forte di un’industria creativa che vale globalmente 205,5 miliardi di euro e ha fissato un target di crescita a circa 260 miliardi per il 2025, con un incremento a due cifre anno su anno. In un’intervista a FashionUnited, Steve Lau, co-CEO di SHDW aveva affermato: “Il nostro obiettivo è quello di portare fuori il design dalla Cina e, al contempo, di farlo entrare”. L’evento ha segnato anche la firma di un memorandum d’intesa con il London Design Festival per coltivare una partnership tra le economie creative dei due paesi. “Strategicamente, il fine principale e il ritorno sull’investimento (ROI) di questo evento è quello di dare il via e iniziare il dialogo con la comunità del design londinese. Abbiamo in programma molti altri follow-up”, aveva spiegato Lau alla piattaforma globale di news. Uno spiraglio verso un dialogo a due sensi, dalla Cina verso il mondo e ritorno.
di Vittoria Giusti