A fronte di un “impoverimento di contenuto e qualità” nel mondo dell’arredo contemporaneo, è necessario ritornare alla progettualità del grande design italiano degli anni ’50 e ’60, pur senza perdere di vista il binomio innovazione-sostenibilità. A esortare designer e aziende è Giulio Cappellini, architetto e art director di Cappellini, insignito lo scorso giugno del Compasso d’Oro alla Carriera presso l’Adi Design Museum di Milano.
Il suo cognome coincide con un brand del settore, oggi parte del gruppo Lifestyle Design, dal 2014 controllato dal colosso americano Haworth, ma lei riveste il ruolo di art director sia per Cappellini che per altre aziende.
Dico sempre che sono un designer della domenica pomeriggio perché, più che disegnare prodotti, mi piace lavorare al progetto d’azienda, in quanto molto meno aggredibile e imitabile. Soprattutto pensando alle aziende italiane, al di là del prodotto che è assolutamente fondamentale, il brand, che significa qualità, ricerca e innovazione, è sicuramente un elemento vincente ed è quello che fa la differenza.
Come è nata la sua attività?
Mi sono laureato in Architettura al Politecnico di Milano e ho avuto la grande fortuna di lavorare nello studio di Gio Ponti quando era ancora in vita. Come amo ripetere, un anno con Gio Ponti è valso più di cinque anni in facoltà, nel senso che con lui ho imparato che nulla accade per caso e soprattutto che i progetti vanno seguiti dall’inizio alla fine. Poi ho fatto la Sda all’Università Bocconi e sono entrato casualmente nell’azienda di famiglia. Oggi, all’interno di Haworth, Cappellini Spa rappresenta una piccola realtà, però il fatto di potersi confrontare su dimensioni e storie di prodotto diverse è molto interessante.
Quanto conta la comunicazione nelle scelte di acquisto?
Sicuramente in Italia, e in qualche caso anche nel mondo, si producono oggetti di straordinario design, ma dobbiamo raccontare il sudore che c’è alle spalle e ritornare a fare dei prodotti di qualità come all’origine del grande design italiano. Non è un caso che i giovani oggi riservino particolare attenzione agli archetipi degli anni ’50 e ’60, come non lo è che i marchi, con tecnologie produttive nuove e materiali differenti, stiano rieditando prodotti che sono stati i capisaldi del design italiano.
Quindi oggi sul mercato vede una ricerca meno radicale?
Oggi per un’azienda è fondamentale essere contemporanea e può esserlo soltanto puntando sull’innovazione, che significa lavorare non su una forma nuova ma su un concetto più generale, su dei landscape, immaginando il comportamento dell’utente finale.
Mi raccontava che, in questi ultimi due anni, le aziende hanno privilegiato il catalogo esistente.
Questo periodo ha accelerato dei fenomeni già in atto. In passato abbiamo assistito a una crescita incontrollata dei prodotti. Oggi abbiamo delle possibilità straordinarie di utilizzo di nuovi materiali e sistemi produttivi, ma è fondamentale un pensiero sul prodotto più calibrato e preciso, senza penalizzare la ricerca e l’innovazione. Un tema a cui sono molto affezionato è quello di cercare di creare dei long seller e non dei best seller. Il design crea dei best seller, il buon design crea dei long seller.
Sempre di più l’innovazione è tecnologica?
Assolutamente sì. Una caratteristica dell’industria italiana che la rende vincente nel mondo è l’ingegno, la voglia di prendersi dei rischi. Parliamo di industria e design, ma non dobbiamo dimenticarci di una forza straordinaria come quella dell’artigianato, che spesso è purtroppo penalizzato, anche per un tema di ricambio generazionale.
Quale approccio alla sostenibilità nota nel settore?
Sicuramente c’è stato un momento di confusione, soprattutto perché per un certo periodo produzione industriale e ricerca hanno percorso strade parallele. Negli ultimi anni si è fatto un grandissimo passo avanti. La sostenibilità è un processo che deve coinvolgere l’azienda a 360 gradi, dai sistemi produttivi al benessere dei lavoratori, fino all’utilizzo di materiali riciclati e riciclabili. Oggi c’è un’attenzione straordinaria a questo tema, ancora una volta da parte di un pubblico giovane. E quando parlo di pubblico giovane intendo una generazione no code, che può avere vent’anni come sessanta, ma che vive in modo libero e flessibile.
In merito al Compasso d’Oro, mi diceva che l’ha sorpresa la varietà degli oggetti premiati.
Sì, mi ha colpito perché il Compasso d’Oro è nato premiando soprattutto gli elementi d’arredo. Il fatto che quest’anno siano stati premiati soltanto due elementi d’arredo, mentre molti premi sono stati dati a sistemi tecnologici, mi ha fatto pensare a un certo impoverimento di contenuto nel mondo dell’arredo. Ad ogni modo, il Compasso d’Oro alla Carriera del Prodotto premia dei prodotti che, a distanza di anni dalla loro presentazione, dimostrano di avere una forte carica progettuale. Pensando che per l’industria italiana il palcoscenico è il mondo, tracciare delle strade, e non seguirle, è fondamentale.