Mentre avanza la crisi idrica con chiare conseguenze sull’attività e sui costi dell’industria, l’opportunità di investire sui desalinizzatori merita un attimo di riflessione, tra ragioni di opportunità e rispetto per l’ambiente.
Con il 97% dell’acqua disponibile sulla Terra di origine marina, la desalinizzazione può giocare un ruolo di primo piano nella lotta alla siccità. E dopo un’estate torrida, mentre l’allarme sulla carenza di acqua accompagna drammaticamente altre preoccupazioni, e si è costretti a razionalizzarne l’uso, la domanda circa il perché l’Italia non abbia ancora provveduto a dotarsi di desalinizzatori sorge spontanea. Eppure, la sua è una linea costiera tra le più ampie al mondo, ma la capacità di desalinizzare conta oggi solo per lo 0,1% dei prelievi idrici complessivi. In realtà, diverse isole, come Sicilia, ma anche Lazio e Toscana, hanno già iniziato a dotarsi di impianti di desalinizzazione. Il Pnrr, per altro, individua quattro voci di investimenti con lo scopo di “garantire la sicurezza dell’approvvigionamento e la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo” per risorse totali di 4,38 miliardi di euro, circa 51% nel Mezzogiorno. Un paper di Althesys e Acciona, dal titolo ‘La desalinizzazione, una risposta alla crisi idrica’, fa il punto sullo stato dell’arte nel mondo e sulle reali opportunità di questo tipo di soluzione. “La dissalazione – spiega l’economista Alessandro Marangoni – costituisce oggi una risposta reale e attuabile in tempi brevi all’emergenza idrica: si tratta di una tecnologia industrialmente matura, economicamente competitiva e sostenibile grazie alla ricerca e alla complementarità con le energie rinnovabili. Nonostante le ragioni economiche e ambientali che la sostengono, questa soluzione viene invece frenata da un quadro normativo e socio-politico sfavorevole. Per svilupparla è pertanto necessaria una maggior attenzione da parte delle istituzioni e degli enti locali sul fronte infrastrutturale e un quadro normativo adeguato”. Complice la riduzione dei costi, il potenziale della dissalazione in Italia è enorme, tanto più che l’inasprimento dei fenomeni siccitosi e della desertificazione ne favoriranno lo sviluppo nei prossimi anni. Grazie al perfezionamento dei processi e allo sviluppo dei materiali si prevede, infatti, un’ulteriore diminuzione dei prezzi: se, nel 2019, erano scesi per la prima volta sotto i 3 dollari (tra investimento, gestione ed energia elettrica), il 2020 ha visto un nuovo record, con il prezzo che si è attestato a 1,5 dollari al metro cubo. Dal punto di vista energetico, poi, la desalinizzazione può offrire forti sinergie con le rinnovabili: le zone aride, dove i dissalatori sono più usati, sono anche quelle con il maggior irraggiamento solare e quindi più adatte al fotovoltaico. L’unione tra impianti di dissalazione, generazione solare, eolica, CSP e termoelettrica permette di limitare le emissioni, ridurre i costi energetici e la loro volatilità legata ai combustibili.
LA CORSA NEL MONDO, ANCHE IN EUROPA
La desalinizzazione ha conosciuto nell’ultimo mezzo secolo una forte crescita, con un tasso medio dell’8% annuo. Al 2020, la desalinizzazione è impiegata in 183 Paesi; quasi la metà della capacità totale (47,5%) è installata nei Paesi del Medio Oriente. Globalmente sono operativi circa 16.000 impianti, per una capacità totale di oltre 78 milioni di metri cubi al giorno. In Europa, sono soprattutto i Paesi mediterranei quelli interessati alla desalinizzazione, che infatti ha conosciuto un notevole sviluppo soprattutto in Spagna, dove al 2021 risultano installati circa 765 impianti. Tra questi, anche installazioni di grande taglia al servizio di aree urbane importanti, come nel caso di Barcellona.
DA WEBUILD UN PROGETTO INTEGRATO
Intanto, c’è chi si muove. Prima dell’estate, Webuild ha presentato una proposta per costruire desalinizzatori che producono acqua potabile dall’acqua del mare. “Contando sulla enorme esperienza mondiale del Gruppo sull’acqua sul suo intero ciclo di produzione inclusa la tecnica della dissalazione, vogliamo promuovere un progetto integrato che permetta al Paese di risolvere questo problema endemico che sta peggiorando sempre più. La nostra controllata Fisia ha già realizzato la maggior parte degli impianti di dissalazione in funzione nel Medio Oriente, rendendo possibile la vita in città strappate al deserto come Abu Dhabi o in città ad alto consumo di acqua come Dubai. La carenza idrica in Italia è un fenomeno storico e non solo momentaneo legato al cambiamento climatico. È necessario un intervento immediato e strutturale per risolvere una volta per tutte lo stato di profonda crisi idrica del Paese, approfittando del momentum positivo per la realizzazione di infrastrutture e dell’esperienza di soggetti istituzionali ed imprenditoriali, che insieme si possono mettere a disposizione del Paese e degli italiani per fornire soluzioni al problema, anche facendo ricorso a risorse del PNRR” dichiara Pietro Salini, amministratore delegato di Webuild. ll Gruppo, ha individuato delle soluzioni alla crisi idrica del Paese con la costruzione di desalinizzatori, che già realizza da decenni in molte aree aride del mondo. Con Fisia Impianti, Webuild è leader mondiale nella progettazione sostenibile e nella realizzazione di impianti per il trattamento delle acque e per la dissalazione, con una produzione pari a 6.000.000 m3/giorno di acqua trattata, che soddisfa ogni giorno le esigenze di 20 milioni di persone nel mondo. Il Gruppo ha inoltre realizzato un impianto molto complesso in Nevada nel 2016, per dissetare la città di Las Vegas. Il tunnel idraulico n. 3 di Lake Mead garantisce oggi la fornitura di acqua potabile a quasi 2 milioni di residenti nella città di Las Vegas e nelle aree circostanti, attraverso un articolato sistema di prelievo e trasporto delle acque del Lake Mead.
MA LA LEGGE PARLA CHIARO
Ma da un punto di vista normativo? Lo scorso 10 giugno è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, la legge 17 maggio 2022, n. 60, ‘Disposizioni per il recupero dei rifiuti in mare e nelle acque interne e per la promozione dell’economia circolare’. La cosiddetta ‘legge salvamare’ che all’articolo 12 chiarisce che “al fine di tutelare l’ambiente marino e costiero, tutti gli impianti di desalinizzazione sono sottoposti a preventiva valutazione di impatto ambientale. Inoltre, gli impianti di desalinizzazione destinati alla produzione di acqua per il consumo umano sono ammissibili “in situazioni di comprovata carenza idrica e in mancanza di fonti idricopotabili alternative economicamente sostenibili” e “qualora sia dimostrato che siano stati effettuati gli opportuni interventi per ridurre significativamente le perdite della rete degli acquedotti e per la razionalizzazione dell’uso della risorsa idrica prevista dalla pianificazione di settore”. Ora, se si pensa che il tema delle perdite della rete sono un tema di cui si discute da decenni senza il minimo intervento, chiaro è che, essendo l’uno propedeutico all’altro, difficile che se ne possa venire effettivamente a capo”. Inoltre, è necessaria una valutazione costi/benefici. La legge esclude dal campo di applicazione del presente articolo gli impianti di desalinizzazione installati a bordo delle navi”.
La legge in sostanza pone un problema legato essenzialmente a costi ambientali. C’è insomma una seconda faccia della medaglia. Uno studio dell’Onu che risale al 2018, mette in evidenza come per ogni litro di acqua desalinizzata il quantitativo di salamoia è di 1,5 litri. La concentrazione varia a seconda della salinità dell’acqua. In sostanza per i 95 milioni di metri cubi di acqua dolce che vengono prodotti dai desalinizzatori, restano 142 milioni di metri cubi di salamoia ipersalina al giorno. Interessante notare nell’analisi che la maggior parte della salamoia prodotta nel mondo viene da quattro Paesi che sono l’Arabia Saudita (22%), gli Emirati Arabi Uniti (20,2%), il Kuwait (6,6%) e il Qatar (5,8%). Questo perché gli impianti utilizzano una tecnologia tale da produrre, secondo lo studio, circa due volte in più di salamoia (e anche di più) per metro cubo di acqua pulita. Si tratta di impianti che inducono l’evaporazione, diversi da quelli che si utilizzano in particolare negli Stati Uniti, per lo più nei fiumi che prevedono un metodo ‘a membrana’. In definitiva è solo l’innovazione tecnologica e la ricerca di soluzioni che minimizzino le scorie che darà una risposta definitiva al tema.