Un mestiere difficile, quello dell’editore di design, che richiede capacità di innovare ma senza eccessi, spalle più solide, visione globale e posizionamento alto. L’analisi di Antonio Catalani, docente della Bocconi, svela la necessità di fare scelte coraggiose.
Essere editori di design, oggi, significa fare scelte coraggiose. Recuperare la voglia di rischiare con prodotti di altissima qualità e ricerca, magari anche di nicchia, di lusso assoluto, e non seguire i trend di mercato. Saper ben declinare la relazione tra la ricerca formale e la domanda. Antonio Catalani, docente di Management of Design all’Università Bocconi di Milano e forte di una lunga esperienza nel settore, ne è certo: “Quanto più vai dove va il mercato, tanto più devi trattare sul prezzo, scendere a patti con questo fattore”. E dunque: “Se vuoi competere sul prezzo, non puoi fare l’editore”. Una figura, un modo di fare impresa, quella dell’editore, che “nasce essenzialmente intorno agli anni 70” quando alcuni imprenditori mostrano “una grande capacità di selezionare progettisti e progetti, di individuare l’espressione più pura del design, della ricerca sul design”. Un esempio? “Driade o Baleri Italia, che sono stati tra i primi ad utilizzare Philippe Starck”. Ma avere capacità editoriale voleva anche dire “possibilità di coprire tutte le funzioni arredative, tutte le funzioni d’uso, tutti i materiali e le finiture perché, evidentemente, c’era un network di fornitori esterni, attraverso i quali si riusciva a realizzare qualsiasi cosa”. Un vantaggio, quest’ultimo, “controbilanciato da una serie di altri problemi”. Per esempio, il tentativo del fornitore esterno di imporre quantitativi minimi nella produzione.
LIMITE DIMENSIONALE
Ora, che cosa è successo nel corso degli anni? “A fronte di un forte cambiamento dell’idea di design, il prodotto si è in molti casi appiattito, banalizzato”, replica il docente. In primo luogo “perché non si ha coraggio di fare ricerca”, e poi perché “quanto più fai ricerca, tanto più devi essere un’azienda globale nella distribuzione. E alcune realtà editoriali che non hanno saputo affrontare il mercato internazionale sono andate sostanzialmente in crisi”. Inoltre, “a livello organizzativo, lo specifico dell’essere editore richiede che vengano individuati fornitori sempre nuovi e sempre più capaci, ma richiede anche di affiancare altri che fanno prototipazione dei prodotti e controllare una rete di distribuzione capace di assorbire l’investimento in fornitura”. Un modello che “oggi a me sembra un po’ affaticato”. Ed ecco il primo warning. “Vuoi fare l’editore puro? Devi avvicinarti ancor di più all’evoluzione del cliente e imparare a gestire il designer. Il quale spesso, in passato, ha usato questi editori per autocelebrarsi”. A dispetto delle vendite.
FINANZA E CULTURA D’IMPRESA
Gli editori hanno cercato nuovi linguaggi, nuovi materiali, ma non tutti i prodotti ideati sono risultati convincenti. E gli errori poi si pagano. “Così molte aziende sono passate di mano o sono scomparse” rileva Catalani, ricordando anche che “spesso, e questa è una nota triste, interviene il fatto che chi acquista queste aziende, a volte non ne capisce molto. Accade. Quest’idea di un management che va bene per tutto mi fa un po’ sorridere”. Il design richiede una competenza specifica. “Non amo il paragone moda-arredamento perché non c’entrano nulla l’una con l’altro, ma all’interno della moda o del lusso ci sono dei gruppi che hanno saputo gestire i brand in maniera estremamente intelligente e costruttiva. Penso a Richemont con Cartier e Van Cleef & Arpels: nessuna delle due è stata snaturata. Noi a volte non abbiamo ancora capito che la finanza funziona solo se lavora insieme alla cultura dell’impresa”.
TALENT SCOUT? NON BASTA
Le realtà editoriali “vivono scomode” ma, cita ad esempio Catalani, ce ne sono alcune, come Kartell, che hanno la capacità di stare sul mercato globale, essendo dotate di “processi produttivi specialistici (i costosissimi stampi) che rappresentano una barriera all’entrata e richiedono competenze esterne all’azienda”. Tutto questo porta un vantaggio competitivo e casi di successo. Ma, quando si muove al di fuori di questi ambiti, l’editore “incontra una vita molto complicata”; deve dunque necessariamente avere “la competenza di un talent scout strepitoso”, ma anche importanti capacità organizzative e di networking. A beneficio, soprattutto, quest’ultima, del contract, “l’unico mercato che può crescere ancora”.
“Il mercato della distribuzione tradizionale è molto in crisi – prosegue il docente – e il monomarca non è funzionale al prodotto di un editore”. Di conseguenza, questi deve necessariamente puntare sul contract. E non tanto essere pronto a produrre “tante cose diverse con materiali diversi”, perché “può essere in realtà non un tema di flessibilità, ma un grande rischio”. Cercare nuovi prodotti nel proprio catalogo, per contrastare un mercato saturo, può comportare gravi ricadute sia sulla logistica, sia sulla gestione dei margini. Basti pensare “a quanti prodotti vengono presentati ogni volta in occasione del Salone del Mobile, dove circa duemila espositori portano almeno cinque novità a ogni edizione: stiamo parlando di diecimila nuove idee all’anno. Dopo tre anni, quanti di questi prodotti sono ancora presenti sul mercato?” si domanda Catalani, facendo presente che si tratta di investimenti per svariati milioni di euro, destinati a non dare frutti continuativi. Ecco allora che “quando si parla di flessibilità, spesso non si tiene conto di tutti gli investimenti che si devono realizzare”.
NICCHIE E COMPETENZA
La regola che si può apprendere da quest’analisi è la seguente: “Non andare dove va il mercato, ma puntare sulla competenza”. Non ci si deve illudere, insomma, che allargando la gamma ed entrando laddove non si hanno competenze, storia e tessuto, si riesca poi ad ottenere successo. “In un mercato in cui c’è tutto, ma tutto davvero, il problema delle aziende è l’eccesso di capacità produttiva rispetto a quello che i clienti poi assorbono”. Una sola è la strada per sopravvivere: “Quella di essere percepito come player migliore degli altri. Occorre differenziarsi, distinguersi, fare un prodotto diverso dagli altri, e saperlo proporre in modo diverso dagli altri. Ma stando ben attenti agli eccessi”. Questo perché “se lo fai troppo diverso, allora sei fuori mercato. L’innovazione estetica formale oggi deve essere pulita, deve rispondere a una domanda di rassicurazione nell’acquisto e non solo nel mobile, ma anche nella moda, nell’hi-tech. Ecco perché tutte le aziende stanno cercando di recuperare la loro iconologia, per rafforzare la propria identità”.
Ma questa, se vogliamo, è anche la ragione per cui realtà piccole con bassi volumi “come Colè o Fornasetti, possono stare in piedi purché lavorino sulle nicchie”. Questo perché una nicchia globale esiste, ma a prezzi molto alti. È il lusso vero, che però si realizza selezionando fornitori di altissima qualità e operando a prezzi consequenziali e pure con tempistiche più lente. “Devi poter dire al cliente che il prodotto lo consegni tra quattro mesi”. Che, conclude il docente, è anche il modo più plastico di dire: “Se tutti vanno in una direzione, allora bisogna fare l’opposto”.