“Se penso alle nuove tecnologie, credo che quello che abbiamo davanti a noi, in quanto generazione che è passata dal pennino ai software, siano i titoli di testa di un nuovo film che impatterà su due fronti: uno è quello occupazionale, che potrebbe modificare il ruolo di chi negli studi oggi riveste ruoli operativi – come coloro che si occupano di computi metrici, di leggi, regolamenti e normative sulla sicurezza – l’altro è quello della progettualità, rispetto alla quale l’intelligenza artificiale va vista come un nuovo strumento, tutto da esplorare”. Lo ha detto Cesare Chichi, architetto e cofondatore con Stefano Maestri dello studio 967arch, durante il 9° Pambianco-Interni Design Summit dal titolo ‘Il new normal dell’arredo italiano. Opportunità e opzioni strategiche per proseguire il percorso di sviluppo’, che si è svolto il 28 giugno al Palazzo della Borsa di Milano. In questo scenario sempre più tecnologico, si va incontro anche a una trasformazione radicale dell’organizzazione del lavoro: una metamorfosi che peraltro è già in atto. “Lo studio d’architettura del futuro avrà una struttura più allargata e collegiale, senza divisioni fra progettisti ed esecutori, indispensabile per affrontare l’estrema complessità dei progetti”, ha sottolineato Michele Rossi, architetto partner e co-founder di Park Associati, l’altro ospite della tavola rotonda. “Ed è anche probabile che, con l’andare del tempo, all’intelligenza artificiale vengano affidati i compiti più tecnici e ripetitivi. Ma di sicuro l’uomo, l’architetto, non saranno mai sostituiti da una macchina”.
PAMBIANCO: Che si parli di aziende, informazione o progettazione, Milano è al centro del sistema industriale. Visto che l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata sono i temi del momento, in quale misura le nuove tecnologie stanno impattando sull’attività degli studi d’architettura?
CHICHI: “Come 967arch, noi siamo nati nel 1999 e siamo rimasti uno studio di dimensioni medio-piccole per il panorama italiano, in tutto 24 persone. Abbiamo una specializzazione nel settore dell’office, e spesso dico che si tratta di una ‘gabbia dorata’ perché negli anni questo know ho specifico ci ha consentito di crescere e di avere una clientela dalla quale abbiamo anche imparato tanto; d’altro canto, però, quando ci proponiamo in altri ambiti di progettazione, ci dicono che siamo bravi a fare corporate, anche se ultimamente siamo riusciti ad allargare lo spettro nel quale operiamo. Lo studio è diviso in tre settori: uno si occupa di architettura, uno fa design di prodotto e il terzo segue la comunicazione, che oggi ha un peso sempre maggiore nell’attività degli studi. Per ciò che concerne le nuove tecnologie, il problema non è tanto che l’AI possa produrre architettura, quanto che vada a sostituire il progettista. Cercando di recente online, ho trovato una clonazione di Renzo Piano creata a immagine e somiglianza del progettista reale, che sostituiva non solo la parte realizzativa ma anche quella di pensiero, che è l’anello più importante se si vuole conservare la creatività. Questa metamorfosi appare legata non tanto al processo progettuale in sé, quanto a ciò che c’è a monte e a valle del progetto stesso: se a monte i dati che si inseriscono sono gli stessi di un brief condiviso fra più studi di architettura, e se lo strumento che si usa è uguale per tutti, il risultato sarà omogeneo. Probabilmente, quindi, la vera scommessa sarà quella di far ‘impazzire’ la macchina e di farle fare degli errori, che poi è proprio quello che accade quando si progetta: magari all’inizio si va in una direzione e poi, in corso d’opera, ci si trova con un risultato alternativo che è migliore rispetto alla base di partenza, e forse questo processo la macchina per ora non lo conosce. Inoltre, non si può dimenticare che ciascuno di noi, quando progetta, attinge dal proprio bagaglio di immagini, storie, incontri, viaggi, conoscenze, ed è un patrimonio personale e unico. Se invece si utilizzano le tecnologie che raccolgono dentro la Rete il bagaglio di tutti, il rischio di una omogeneizzazione dei risultati è molto elevato”.
PAMBIANCO: Come nasce lo studio Park Associati e qual è l’approccio alle nuove tecnologie?
ROSSI: “Lo studio Park Associati è stato fondato da me e da Filippo Pagliani 23 anni fa, e da sempre ci siamo occupati di architettura, di interni e negli ultimi tempi anche di design di prodotto e di landscape. Nel nostro Dna c’è sempre stata l’idea di pensare al ruolo dell’architetto con uno sguardo rivolto alla contemporaneità, per poter aggiornare la professione alla luce delle nuove esigenze via via emergenti. Abbiamo immaginato uno studio che avesse già delle caratteristiche diverse rispetto al modello classico italiano, di 20-30 anni fa, che di solito ruotava intorno a un maestro che diventava un punto di riferimento creativo. Oggi il processo che porta al progetto architettonico è così complesso che è indispensabile orientarsi verso un’organizzazione più collegiale, che dia più spazio a diversi professionisti di talento. L’intelligenza artificiale, per come la stiamo usando ora, è molto utile e ci sta aiutando a ottimizzare i processi più noiosi, cavillosi, tecnici. Un esempio è quello dei calcoli dei rapporti aeroilluminanti, che portano via tempo ed energie, soprattutto quando si deve realizzare un edificio molto grande. Già adesso questa è un’incombenza che si affida alla macchina, grazie a una striscia programmata da noi e che ci consente di automatizzare gli step più ripetitivi”.
PAMBIANCO: Come state usando l’intelligenza artificiale negli ambiti più creativi?
ROSSI: “In questa fase stiamo impiegando l’AI per la raccolta delle immagini per le moodboard, ma di fatto al momento non mi sembra che l’intelligenza artificiale ruberà lavoro ai professionisti. Certo: se si tratta di costruire sette stecche residenziali a Shanghai, è facile che in futuro questo tipo di lavoro lo farà una macchina. Nei progetti dove invece hai un’integrazione con un tessuto urbano, una comunità, uno spazio pubblico, quando cioè devi dialogare con tutta una serie di componenti, è difficile che l’uomo venga rimpiazzato da uno strumento tecnologico”.
CHICHI: “È un ragionamento che vale a maggior ragione per noi che siamo molto piccoli e non abbiamo lo studio diviso fra progettisti creativi ed esecutori. Per le funzioni più ripetitive, è probabile che di qui a pochi anni subentreranno le macchine, liberando risorse per la parte creativa. Alla fine anche l’AI è uno strumento, come lo è stata la matita: bisogna solo capire come la si potrà sfruttare al meglio rispetto alle potenzialità che offre, che per ora non sono ancora del tutto conosciute”.
PAMBIANCO: In 967arch progettate soprattutto uffici e in headquarter. Qual è il trend attuale? Le aziende cosa vi chiedono? È cambiato qualcosa fra il pre e il post pandemia?
CHICHI: “Dopo la pandemia più che i progetti sono mutati i comportamenti. In questo momento, non vedo molti stravolgimenti nelle richieste delle aziende che, in genere, si confrontano con una notevole sovrapposizione di brief, ed è lì che entra in gioco il tema della comunicazione. In un periodo medio-lungo, è invece emersa la sempre maggiore importanza del ruolo dell’architetto nella progettazione degli ambienti di lavoro. Nell’home, ciascuno si sceglie le cose, nell’hospitality ognuno decide dove andare, mentre l’ufficio è uno spazio che deve essere aperto a recepire figure diverse, con inclinazioni, comportamenti ed estetiche molto variegate. L’anomalia di 967arch è che, in genere, le corporate lavorano con studi di architettura molto grandi, anche di 2-300 persone, mentre è più raro che si rivolgano a studi piccoli. La vera novità è che, mentre in passato si veniva chiamati da figure più tecniche, come i facility manager, ora invece ci contattano i responsabili delle risorse umane: a conferma della maggiore attenzione che dopo il Covid viene dedicata al benessere delle persone che lavorano e, di riflesso, alla funzione e all’apporto dell’architetto”.
PAMBIANCO: Quindi i vostri interlocutori sono soprattutto gli Hr manager?
CHICHI: “Se non siamo chiamati direttamente dai responsabili delle risorse umane, qualcuno di loro è sempre presente nelle riunioni più strategiche. Del resto, noi architetti agiamo da filtro fra l’azienda e quello che l’azienda vuole come spazio finale per il suo personale, e ogni professionista filtra le richieste in modo diverso. Per questo sono convinto che la comunicazione abbia un ruolo cruciale.
PAMBIANCO: In che senso?
CHICHI: “Quella che una volta veniva chiamata identità aziendale – o forse sarebbe meglio parlare di cultura aziendale – deve essere ben raccontata per essere compresa dal progettista. Spesso ci si rende conto che la comunicazione viene usata non come strumento di conoscenza ma come fine, per cui nei brief ci sono parole e concetti come ‘smart working’, ‘effetto wow’, ‘sostenibilità’, ‘inclusività’, termini che diventa molto difficile tradurre in spazio fisico o in prodotti se non vengono ben comunicati. Questo per dire che, in certi casi, la comunicazione rischia di sovrastare la forza del progetto: si va più sulla velocità che sulla profondità. Inoltre, gli uffici tendono a essere destrutturati, non esistono più zone ben definite ma c’è una sovrapposizione di attività in spazi diversi. E questo accade sia all’interno dei building office che in altri luoghi: per esempio, gli hotel ormai hanno spazi di lavoro, zone leisure, aree wellness…”.
PAMBIANCO: Park Associati è invece uno studio specializzato in rigenerazione urbana…
ROSSI: “In realtà, abbiamo anche progettato diversi headquarter, ma la rigenerazione è un tema che ci interessa e ci piace sviluppare da sempre, perché riteniamo che, soprattutto nelle città europee, sia l’approccio più contemporaneo e innovativo. Ora stiamo seguendo due progetti importanti di demolizione e ricostruzione: ogni tanto ci sono dei casi in cui demolire è necessario ma, se si può evitare, la riqualificazione si rivela un metodo di intervento sul territorio virtuosissimo. Si fanno tanti sforzi per costruire in maniera sostenibile, ma l’edificio più sostenibile è quello che già esiste e non deve essere né demolito né ricostruito. Sotto questo profilo, Milano è una città che ha fatto scuola perché non esistono tante metropoli che abbiano avuto così tanta rigenerazione creativa in un arco temporale tutto sommato contenuto. In fondo, quando si riqualifica, il nostro progetto e quello del progettista originario si vanno un po’ a confondere, ed è un’opera di co-progettazione molto affascinante. Per me e per il mio socio Filippo Pagliani, che siamo milanesi nati e cresciuti a Milano, il fatto di poter reinterpretare gli edifici di maestri come Zanuso, Magistretti, i fratelli Soncini, è stato sempre un’opportunità preziosa perché ci permetteva di studiare a fondo i motivi del progetto originario per portarli alla contemporaneità, valorizzandone le soluzioni funzionali. Quando siamo riusciti a lavorare su edifici con qualità e contenuti di livello, abbiamo sempre cercato di attualizzarne il Dna originale; in altri casi, anche quando non si tratta di un progetto d’autore, è comunque interessante creare qualcosa di nuovo partendo da uno struttura esistente, riutilizzare una base strutturale in cemento armato, che è la fonte principale dell’impatto ambientale, e creare qualcosa di nuovo magari facendo delle piccole demolizioni, spostando le volumetrie. È un modus operandi che a Milano si è seguito molto in questi ultimi anni, ma non è così frequente all’estero, e ritengo che diventerà un tema sempre più rilevante in futuro: le risorse diminuiscono, e da un lato ci si domanda come reimpiegare i materiali che sono già stato utilizzati, dall’altro c’è la necessità di riqualificare le strutture esistenti”.
PAMBIANCO: Esiste una cifra stilistica di Milano a livello architettonico?
ROSSI: “Di sicuro l’approccio alla rigenerazione urbana caratterizza Milano in maniera peculiare rispetto ad altre città. E poi c’è anche una continuità nel modo di interpretare la professione, che deriva dal fatto che a Milano l’architetto studiava e studia tuttora progettazione, design, interiors, senza cedere all’eccesso di specializzazione e anzi, allargando i campi di lavoro e operando su varie scale”.
CHICHI: “Questa visione è anche frutto dell’imprinting del Politecnico di Milano, ed è un tratto caratteristico di questa città. Poi, di sicuro, a Milano s’incontrano voci e mani differenti – anche noi, a nostra volta, lavoriamo altrove – e proprio questa varietà e questo scambio continuo generano bellezza.”.
ROSSI: “La natura di Milano è nella discontinuità e sta nella sua capacità di accettare le eccezioni e le diversità: in Italia ci sono poche altre città che lo permettano”.