Icone della personalità e della capacità di integrazione nel paesaggio dei nuovi building, le facciate assumono un ruolo di primo piano a livello estetico e progettuale. Come raccontano Patricia Viel e Alfonso Femia.
La pelle degli edifici definisce l’identità visiva di una città, e racconta una storia che va molto al di là del valore formale: per chi si occupa di architettura, si tratta di un tema da affrontare con un approccio quasi filosofico.
Patricia Viel, AD e partner dello studio ACPV ARCHITECTS Antonio Citterio Patricia Viel, uno degli atelier di progettazione italiani più importanti del mondo, affronta il tema dell’architectural skin con un approccio globale visto che il suo studio firma progetti internazionali da Taiwan a Tokyo, passando per Dubai, e lei lavora ogni giorno in situazioni molto diverse mettendo a frutto una singolare capacità di coniugare osservazioni pratiche con una prospettiva teorica e storica, in cui ‘la pelle’ è solo un tassello di un’idea progettuale molto più ampia. Alfonso Femia, architetto, urbanista e designer, fondatore dello studio internazionale Atelier(s) Alfonso Femia (in precedenza 5+1AA), con sede a Genova, Milano e Parigi, ha invece della ‘pelle’ degli edifici una visione più emotiva ed è convinto che la ‘skin’ sia un mezzo per connettersi con le persone e con l’ambiente: è una chiave di lettura che discende anche dall’intenso lavoro di ricerca che Femia svolge attraverso la società benefit 500×100, su temi diversi, come il Mediterraneo e il cambiamento climatico; nel 2018 ha avviato la ricerca “Mediterranei Invisibili” e ha ideato la manifestazione ‘La Biennale dello Stretto’, in collaborazione con l’architetto Francesca Moraci. Fra i suoi testi più recenti, Le tre linee d’acqua, racconto e catalogo di questa recente esperienza, edito da 500×100 Publishers.
Da metafora dell’architettura a sistema interdisciplinare
“L’epidermide come metafora è una figura retorica che appartiene al linguaggio dell’architettura moderna. Era lo ‘skin and bones’ di Mies Van der Rohe, un vero programma dove l’involucro non si confondeva mai con la struttura”, ricorda l’architetto Patricia Viel. “La discussione di quegli anni si è poi stemperata nella storia e la comparazione dell’edificio al corpo umano ha perso la sua valenza teorica, perché nel frattempo l’evoluzione dei sistemi costruttivi ha cambiato il modo di vedere la progettazione spostando sempre più l’attenzione dall’architettura ‘d’insieme’ a una fatta di elementi, oggetti architettonici pensati per essere assemblati. E questo è stato inevitabile, e anche positivo, visto che un approccio di questo tipo aumenta le performance del costruito”. E non è tutto: “Ormai possiamo controllare l’intero ciclo di vita di un edificio e, grazie alla tecnologia, si può progettare già prevedendo modifiche e adattamenti futuri. L’architettura diventa così una risposta dinamica e sostenibile alle sfide del presente e del futuro, a maggior ragione quando si lavora su fabbricati preesistenti. Noi, per esempio, negli anni Novanta abbiamo disegnato ad Amburgo una facciata in legno progettata ad hoc per l’edificio, una procedura estremamente complessa – e oggi lo sarebbe molto di più – anche per la quantità di certificazioni richieste. Quando si interviene sul patrimonio edilizio esistente, ogni building deve essere immaginato come un insieme di parti interconnesse, anziché trattare le singole componenti separatamente. Questo approccio integrato si è dimostrato rilevante nel progetto di ristrutturazione della sede Enel a Roma, dove il ruolo dell’involucro è stato valutato nel contesto dell’intero sistema edilizio. La scelta dei materiali isolanti, in questo caso, ha tenuto conto di tanti aspetti tecnici, perché, quando si opera sull’esistente, si diventa anche custodi del patrimonio storico e del paesaggio: l’obiettivo è quello di incorporare la tecnologia in modo discreto ma diffuso, per preservare l’identità unica del costruito”.
Occorre valorizzare il DNA e la storia di ogni materiale
L’importanza del linguaggio culturale dei manufatti è strettamente legata alla qualità dell’ambiente in cui viviamo: “Ogni elemento deve essere piacevole da guardare, contribuire alla gradevolezza dell’insieme e lasciare un segno positivo per il futuro. Stiamo uscendo dall’era in cui la nostra professione era legata alle figure degli archistar e stiamo entrando in una nuova fase interdisciplinare in cui, accanto agli architetti, vengono coinvolti esperti di vari campi: c’è chi è competente sui colori, chi sull’acustica, ci sono sociologi e esperti ambientali. Da queste sinergie non nascono solo strutture architettoniche, ma soluzioni che rispondono a esigenze specifiche”. La mission, quindi, non è solo quella di progettare un edificio “ma un intero paesaggio ed è per questo che la selezione dei materiali non può essere definita in modo assoluto e universale, poiché dipende da criteri specifici e dalla reagolarità della manutenzione: l’obiettivo primario è trovare una soluzione per proteggere le superfici esterne dall’aggressione del tempo e degli agenti atmosferici senza la necessità di intervenire con sostituzioni frequenti. È un po’ quello che accade con le facciate in vetro, che invecchiano perché diventano obsoleti i sistemi che le sorreggono. Nei restauri del palazzo ex Inps di Roma – il Bulgari Hotel appena ultimato – abbiamo adottato un brevetto innovativo che utilizza il vetro con un sistema di vetrocamera che funge da telaio portante, e questo dimostra quanto l’approccio multidisciplinare sia cruciale: tutto ciò che si costruisce oggi deve essere concepito considerando fin da subito il problema dello smaltimento e del fine vita, proprio come avviene per gli oggetti. Solo così si contribuisce concretamente alla sostenibilità urbana”.
Gli involucri sono strumenti vitali per tessere relazioni
“Per prima cosa bisogna ragionare sulle parole”, esordisce l’architetto Alfonso Femia. “L’involucro è un ‘organo vitale’ perché svolge diverse funzioni importanti sia dal punto di vista estetico che funzionale. E dunque la ‘pelle’ degli edifici non deve essere considerata solo sotto l’aspetto tecnologico: la tecnologia è un elemento fondamentale e sostanziale dell’architettura, è una componente progettuale ineludibile che coniuga le esigenze energetiche con le normative e legislative. È una conditio sine qua non che, tuttavia, non deve mettere in secondo piano la potenza visiva, mutevole a seconda dei luoghi e della luce. Studiare questo aspetto rientra nella responsabilità ‘urbana’ del progettista”. In effetti, l’architettura non è la stessa in ogni luogo: “Quella mediterranea, intesa nel senso più ampio, perché abbraccia il nostro mare dall’Africa alle rive francesi e spagnole da una parte e medio-orientali dall’altra, è molto diversa da quella di stampo anglosassone. La nostra visione di progettisti è quindi differente da quella – per dire – dei colleghi nordici, perché ha un rapporto specifico con la luce e trova la sua linfa vitale nella narrazione. Ecco il motivo per cui è tempo di uscire dall’omologazione del solito catalogo di soluzioni standard e recuperare il nostro passato”.
Il grande ritorno della ceramica per le facciate
Nei suoi progetti Femia usa materiali differenti, con una particolare attenzione per la ceramica, “che è la sintesi perfetta tra salvaguardia dell’ambiente, tecnologia, estetica e sostenibilità. Resta ancora da risolvere il tema del consumo energetico e dei costi del processo produttivo, ma sotto il profilo compositivo la ceramica è un materiale straordinario: reagendo alla luce, si comporta infatti come una superficie attiva, ed è così generosa che si trasforma durante le ore del giorno, offrendo di volta in volta giochi di ombre e colori differenti che ne modificano la percezione, trasformandosi in una cosa sola con l’ambiente urbano. Non ultimo, anche quando viene utilizzata sugli esterni degli edifici, la ceramica ha il vantaggio di non invecchiare e riesce a conservare nel tempo colori, texture e lucentezza”. La duttilità della ceramica la rende adatta a differenti modelli d’uso, “magari solo nel basamento, come in alcune delle nostre opere residenziali realizzate in Francia, dove è stata usata per rimarcare lo spazio comune, la dimensione collettiva dello stare insieme”. E quando il budget è limitato, “basta una cornice per cambiare l’identità di una superficie, perché è proprio lei, la ‘pelle’, che diventa la connessione più intima tra persone e la città stessa: nel quartier generale della Banca Nazionale del Lavoro BNL / BNP Paribas a Roma, per esempio, la ceramica crea una dimensione dialogante con l’edificio come con l’intorno”.
L’estetica degli esterni va sempre considerata come una parte del tutto
L’architettura parla e lo fa attraverso il suo rapporto con la luce e con chi la vive. “Come sosteneva Paul Valéry nel suo Eupalino, O l’architetto, l’edificio comunica, e quando riesce a creare legame con le persone, allora ha raggiunto uno dei suoi scopi più importanti”. Lo dimostrano, fra le tante opere di Femia, il progetto residenziale Urbagreen a Romanville, in cui le farfalle di ceramica fungono da elemento narrativo, o le libellule e gli altri elementi decorativi nei Docks di Marsiglia, ‘oggetti che lavorano sulla pelle’, per incuriosire lo spettatore sul significato nascosto dietro dettagli volutamente inusuali.
“Lo studio della ‘pelle’ è un processo complesso e delicato che non deve essere semplicemente aggiunto ma integrato con tutti gli aspetti progettuali fin dal principio: il progetto, quando è ridotto a una semplice somma di episodi, perde la sua anima e diventa un insieme sterile di strutture senza significato. L’architettura si nutre del suo rapporto con il costruito, esito dell’incontro tra la sapienza dell’artigianato e l’applicazione industriale, in modo trasversale. L’architettura deve essere un mezzo per connettersi con le persone e con il contesto circostante. E deve tornare a essere una questione di pelle”.