Vincitrice del premio Mies van der Rohe, la nuova sala studio in Bassa Sassonia è un luogo dove costruire il futuro: grazie alla pianta fluida, alle postazioni creative e agli spazi anti gerarchici da definire di volta in volta.
Il padiglione multifunzione per gli studenti dell’Università Tecnica TU di Braunschweig in Bassa Sassonia in Germania ha vinto il premio europeo per l’architettura Mies van der Rohe 2024. Motivo del premio secondo la giuria è “la capacità di sfidare i vincoli e le immagini della sostenibilità, creando un ambiente accogliente e giocoso per lo studio”.
Quello che rende avveniristico questa struttura ibrida di legno, acciaio e tessuto non è solo l’estetica futuribile e pulita, o il mix di modernismo e trasparenza o il fatto che può essere smontato completamente e ricostruito da un’altra parte, ma il fatto che questo edificio è prima di tutto un invito a comportarsi in modo diverso. La struttura fluida del progetto dei giovani architetti Gustav Düsing e Max Hackehave di Berlino propone un utilizzo dello spazio senza gerarchie e senza vincoli: qui è possibile studiare, rilassarsi e incontrarsi, ma lo spazio va inventato di volta in volta. “Pensiamo ci sia più bisogno di spazi come questo, luoghi non commerciali dove stare insieme in forme da inventare”, spiega Düsing. L’edificio su due piani accoglie studenti di tutte le facoltà per attività che vanno dallo studio, al chill-out alla discussione, dall’ascolto di una lezione online alla lettura. Già diventato un landmark accanto al vecchio edificio storico, si inserisce al centro nella struttura del campus. Un’area studio all’insegna della flessibilità perché “oggi si deve tenere in considerazione che i ragazzi studiano diversamente, dopo il Covid e con l’ingresso dello studio digitale e dell’IA”, spiega Düsing. La pianta è quella di un open space aperto a multi attività, bilanciato da aree più raccolte e altri spazi flessibili pensati per lavori di gruppo, seminari, workshop o relax.
Futuro + Invenzione
Il progetto propone un’idea di cambiamento nel modo in cui ci relazioniamo e usiamo i luoghi e risponde alla necessità sempre maggiore di spazi ibridi di aggregazione. Gli spazi universitari sono per molti studenti il “terzo posto”, quello spazio sociale definito dal sociologo urbano Ray Oldenburg nel suo libro The Great Good Place. Luoghi né solo privati, come la casa, né completamente pubblici come una piazza, ma intermedi. Insomma, un po’ come il bar per i ragazzi di Friends.
“Questo edificio”, spiega l’architetto Düsing, “è una risposta alla domanda: a cosa serve un campus durante o dopo una pandemia? Come va ripensato? Il mondo accademico è diviso tra un prima e un dopo il Covid, e oggi è soggetto a cambiamenti costanti, e il nuovo padiglione offre risposte alla domanda su quale possa essere il ruolo del campus universitario in futuro, quando le lezioni e le presentazioni si svolgeranno anche nel regno digitale e mentre l’intelligenza artificiale sfida i modelli di apprendimento classici”.
Pianta fluida + democrazia
Un edificio manifesto che vuole cambiare il modo di vivere e interagire, con delicatezza eppure con un approccio innovativo e democratico. L’area studio è progettata per favorire un utilizzo senza gerarchie. Come? Promuovendo la comunicazione interpersonale e eliminando gli spazi gerarchici, come le note aule magne, dove la comunicazione funziona in una sola direzione e favorendo la conoscenza interdisciplinare tra studenti e docenti. La struttura fornisce la base per tutte le attività e offre la massima libertà agli studenti nel suo utilizzo. Per creare un senso di comunità che trascenda le singole materie, hanno progettato uno spazio senza aree di passaggio o separazione spaziale tra i piani. Al posto di muri fissi, sono state sviluppate zone accessibili tramite scale e ingressi, creando aree che invitano a diverse attività, grazie a aperture a doppia altezza, o alle aree più intime o agli spazi di presentazione.
Cosa te ne fai della libertà?
“Questo spazio è una base di partenza che viene data in mano a chi lo utilizzerà”, spiega Hackehave. Dimenticate gli spazi definiti e dedicati a scopi precisi, qui la socialità è fluida e va organizzata di volta in volta. “Certo, per qualcuno può essere uno sforzo maggiore, ma organizzare lo spazio significa prima di tutto dare a chi usa lo spazio la responsabilità della gestione, e quindi dell’utilizzo e del progetto stesso” spiega Düsing. Responsabilità è anche non avere regole precise e dover fare attenzione agli altri. Come in questo spazio, dove le modalità di lavoro sono multiple, come le possibilità di sedersi o sdraiarsi, e allo stesso tempo di essere allacciati alla corrente con facilità, visto che i cavi corrono all’interno dei tubi stessi della struttura. Un passo necessario, che si inserisce in un’ottica più ampia di architettura non tesa al bello o al grande, ma che diventa una parte attiva della costruzione di una società nuova.
Modernismo + sostenibilità
La Student House ha una facciata completamente vetrata che offre un’ottima qualità di luce che raggiunge tutte le aree. Moquette, tende e soffitti fonoassorbenti forniscono un’acustica piacevole. Situato al centro del campus, il padiglione di mille metri quadrati è stato disegnato per essere flessibile, non solo per gli studenti con la sua pianta ibrida antigerarchie, ma anche per poter essere facilmente smontato e riutilizzato. Lo scopo è progettare un edificio che rispetti le future esigenze di sostenibilità in architettura e rimanga al passo con le nuove norme. Per questo, secondo Hackehave, i nuovi edifici devono poter essere rivisti, rivisitati e anche rifatti di sana pianta dopo alcuni anni. Se la visione dei due architetti guarda al futuro, i riferimenti estetici e culturali sono invece anche nel passato. Per Hackehave, la visione creativa arriva dai progetti modernisti come il Fun Palace di Cedric Price negli anni ‘60 o il Centre Pompidou. “La richiesta era che la struttura potesse essere spostata perché l’università avrebbe potuto non avere a disposizione quello spazio in futuro”, spiega Düsing. “Abbiamo pensato di costruire un sistema, più che un edificio vero e proprio”, continua Hackehave. “L’idea è quella dei mattoncini da costruzione. Il progetto è formato da moduli con lastre di legno e acciaio che si possono ripetere. Si creano isole flessibili”.
Perché se è vero che la durata della vita di un edificio (e non parliamo di quelli storici) è di 30-50 anni, significa che l’architettura deve essere pronta a essere ripensata in base alle nuove esigenze e scoperte in campo di sostenibilità, “ogni progetto deve poter essere aggiornato ai criteri più avanzati in tema di sostenibilità e consumi”.
Architettura che risponde!
Per Düsing e Hackehave, l’architettura non deve solo celebrare il passato, oggi deve essere un progetto e una risposta per il futuro. Come se facesse un patto con la società, un patto di fiducia e onestà: “si deve avere il coraggio di osservare l’attuale e vedere la maggiore frequenza di catastrofi naturali o di pandemie possibili” e partendo da lì i due archtietti vanno alla ricerca di possibili risposte. “Abbiamo la responsabilità di affrontare il futuro con coraggio e ottimismo. Non entrare nel panico, ma seminare risposte reali”. Costruire in modo leggero, con la possibilità di ricostruire, è un primo passo. “Grazie alla sua leggerezza, questo spazio si scalda e si raffredda velocemente e abbiamo un sistema di aerazione che fa girare l’aria in modo naturale”, dice Düsing.
Vediamoci nel middor
“I miei progetti hanno un inizio sperimentale, più da artista che da architetto”, spiega Düsing mostrandoci il suo studio, essenziale, spoglio, libero, 4 tavoli per lui e gli assistenti e uno spazio semivuoto con materiali, progetti iniziati, esplorazioni in corso. Si vedono rocce appese a dei fili di ferro, tessuti tesi a formare delle vele bianche semitrasparenti e un modellino su un grande tavolo al centro. “All’inizio lascio correre la creatività e mi guardo intorno chiedendomi, cosa serve a cosa e cosa si può migliorare, osservo la gente, come si relazionano l’uno con l’altro, e inizio a lavorare a mani nude o con tessuti. All’inizio, non mi aspetto che i progetti vengano sempre realizzati. Ma di ogni progetto salvo uno o due aspetti che porto nel progetto successivo e lo amplifico e miglioro”. Gli spazi su cui lavora sono spesso intermedi e ibridi, middor appunto. Un termine che non indica gli interni e nemmeno gli esterni, ma quelle zone a cavallo tra i due. Spazi di trasparenza e accoglienza, spesso pubblici e di aggregazione, definiti ma non incasellati, a metà tra dentro e fuori. La leggerezza e la facilità di passaggio dell’aria che troviamo nel progetto della Student House è nata da una accortezza lasciata in dote dalla pandemia e dalla necessità di ventilazione, ma diventa anche una metafora di middor fluido e accogliente.
Trasparenza + res publica
Un esempio di spazio pubblico aperto e accogliente e flessibile è l’Ambasciata tedesca a Tel Aviv. L’edificio disegnato da Düsing è aperto e trasformabile, e può passare da spazio privato – la casa e le stanze dove abita l’ambasciatore – a spazio aperto, comunitario e trasparente, in caso di eventi. Il tutto accade, solo grazie al movimento di un sistema di tende: coprenti nel caso della privacy e aperte e trasparenti in caso di eventi pubblici.
Düsing ama giocare con strutture leggerissime e pareti che possono essere fatte anche di tessuti. È così che la struttura del progetto diventa parte della simbologia e dell’utilizzo stesso. “La trasparenza, l’apertura, l’assenza di pareti fisse e l’idea circolare della struttura cambiano il modo in cui viviamo gli spazi pubblici” e li trasformano da luoghi gerarchici e esclusivi di potere in spazi inclusivi, perché invitano ad entrare, aperti, senza segreti, come la politica e la cosa pubblica dovrebbe essere. Senza niente da nascondere. La trasparenza mostra cosa succede dentro e lo apre al fuori, a tutti noi.
di Leonora Sartori