Tiziano Vudafieri non è “soltanto” un architetto specializzato nella realizzazione di ristoranti di design, ma anche socio in Dry ed Égalité a Milano. Cosa gli chiedono gli chef quando rinnovano il loro locale? Che il progetto racconti una storia coerente con la natura del luogo.
Il panorama italiano della ristorazione è ricco e variegato, finendo per apparire come un mondo in movimento e in continua evoluzione tra insegne che nascono, altre che crescono, si consolidano e qualcuna, purtroppo, che chiude. Il 2018 è stato un anno da record, come confermano i dati di Osservatorio Ristorazione per l’Italia: consumi ai massimi storici con 85 miliardi spesi nei ristoranti e 392.134 attività registrate nelle Camere di Commercio, di cui 337.172 attive. Lo scorso anno sono cresciuti i numeri anche di food delivery e ristoranti etnici. “Il numero dei ristoranti risulta in crescita, arrivando nel 2018 ai massimi storici – ha spiegato Lorenzo Ferrari, presidente dell’Osservatorio, durante una conferenza all’interno del Rapporto RistoratoreTop 2019 tenutasi lo scorso marzo – e questo dipende da un aspetto finora ignorato nelle analisi di settore: le variazioni di codice Ateco, come i bar che diventano tavole calde, le macellerie che aggiungono la cucina, i concept store che uniscono la somministrazione di cibi e bevande ad attività commerciali completamente diverse. Insomma: tutti oggi vogliono far da mangiare, complice anche la spinta mediatica che vede protagonisti i ristoranti stellati e i relativi chef”. All’interno di questo interessante scenario opera lo studio Vudafieri Saverino, architetti ormai da tempo impegnati, tra gli altri progetti, nella realizzazione di ristoranti e locali di successo. Ne abbiamo parlato con Tiziano Vudafieri.
Come vi inserite all’interno del panorama attuale della ristorazione?
È un mondo appassionante, perché tratta la convivialità e la relazione con e tra le persone, e perché tratta una necessità primaria. Ma è anche un mestiere duro e difficile, generalmente con margini bassi, in cui bisogna far combaciare il cuore, l’attitudine all’ospitalità e il fatto di riuscire a far stare bene le persone, con una matematica semplice e implacabile. Se si fa bene questo mestiere, il cliente deve percepire il primo aspetto ma non il secondo.
Come e quando avete iniziato ad esplorare il mondo della ristorazione?
Insieme al mio socio Claudio Saverino, da 8 anni, quando abbiamo iniziato l’avventura Pisacco e Dry a Milano. Personalmente, ho mosso i primi passi all’inizio degli anni ’80. Facevo con degli amici delle performance tra l’arte e la new wave, in cui offrivamo piatti ‘normali’ dal sapore perfettamente normale, ma dai colori assurdi, come il blu elettrico, il giallo fluoro, il viola. Si chiamava Ipercromatico Party, un’investigazione sulla percezione tra aspetto e sapore.
Street food, cucina internazionale, ristoranti tematici. Quali sono i trend oggi?
I generi ci sono tutti; almeno in città, il menu è infinito, interessante, aperto al mondo. Le mode effimere passano. Si mangia sempre più fuori casa, e le nuove generazioni ordinano piatti pronti. Mi sembra che la tendenza alla semplicità sia il tratto comune a tutti i ristoranti, che sia la semplicità estremamente sofisticata dei ristoranti di ricerca, o la tendenza back to the roots o radical old school di molti chef giovani. Moltissima attenzione al prodotto, alla sua tracciabilità e sostenibilità, al valorizzare chi produce o coltiva rispetto a chi distribuisce. E una tendenza alla condivisione dei piatti, al livello ludico, di entertainment che il ristorante trasmette. Almeno in Italia, queste tendenze sono cavalcate anche dalle grandi compagnie di food & beverage, che sviluppano concept molto seri con chef di grande talento.
Guardando al futuro, quale sarà lo scenario dei nuovi format di ristorazione?
La tendenza alla verità nel piatto, alla sostenibilità, alla condivisione e all’intrattenimento andrà avanti per molto tempo, perché corrisponde a un insieme di temi dai quali non si può più prescindere. Nell’immediato futuro, credo assisteremo a una ricerca per migliorare l’esperienza nel food delivery, la consegna a casa di piatti pronti. Esperienza che per il momento è molto povera.
Analogico e digitale: come combaciano all’interno di un ristorante? E come la tecnologia può aiutare il progetto e l’esperienza finale del cliente?
Ormai è quasi una storia vecchia… Chi è digital, per esempio le piattaforme di consegna di piatti pronti a casa, manca quasi totalmente del fattore esperienziale che invece l’oste sotto casa conosce benissimo, al pari delle grandi compagnie di retail nel food & beverage. Chi è fisico crede di amplificare facilmente la notorietà e il desiderio di un posto o di un marchio attraverso il digital, ma conosce pochissimo questo mondo. La parola omnichannel è già abusata, ma i due mondi si parlano ancora poco: la vera chiave è far parlare i due mondi, ma si tratta di una sfida molto complessa.
I social media rappresentano un nuovo e valido modo per raccontare un luogo? È una strategia narrativa vincente?
Certamente, ma bisogna conoscere i codici e i linguaggi delle generazioni che usano queste piattaforme per comunicare col mondo; non è semplice come sembra e per questo spesso i risultati sono deludenti.
Sostenibilità e lotta alla riduzione dello spreco: valgono solo in cucina e nel piatto o anche nel progetto che viene ‘costruito’ attorno?
Il primo ambito (il piatto) è fondamentale. Se c’è l’attitudine al rispetto della materia prima o trasformata, e di chi l’ha coltivata o prodotta, c’è anche il resto. Sostenibilità, assolutamente anche nel progetto. Ridurre budget, metri quadri di cucina, kilowatt, a parità di coperti, riduce ovviamente le emissioni di co2, semplicemente. Le cure dimagranti sono utili al portafoglio e al Pianeta. Racconto due aneddoti recenti: sto aprendo un nuovo ristorante, un piccolo ristorante italiano, 40 coperti, semplice ma ambizioso, praticamente in famiglia, con pochi amici. La cucina è di 15 mq., come una piccola camera da letto doppia; il budget totale, compreso un buffer per il periodo di start-up, è 220mila euro. Un esercizio difficile, ma sano. E ho appena visitato in Costa Azzurra la cucina comune di due ristoranti di qualità, uno gestito dall’amico Pierre Gagnaire, che ritengo sia il principe degli chef francesi. Per mancanza di spazio la cucina è molto piccola, data la dimensione dei ristoranti: 100 metri quadrati, 22 dipendenti in cucina. In alta stagione, i due ristoranti fanno 500-600 coperti al giorno. Nessun errore, nessuna panne ad un utensile è permessa; ho grande rispetto per la professionalità e la passione di queste persone, per il loro riuscire a fare tanto, con poco.
Cosa vuole il ristoratore, quando le chiede di progettare il suo nuovo ristorante?
Che attraverso il design si racconti una storia coerente con la natura del ristorante. Ajmo & Nadia racconta purezza e continuità tra il ristorante storico e il lavoro di Alessandro Negrini e Fabio Pisani; Peck a CityLife racconta un’istituzione storica milanese ma allo stesso tempo un progetto nuovo, in un luogo della nuova milanesità; Spica racconta i viaggi di Ritu Dalmia e Viviana Varese; Kanpai racconta la storia di tre ragazzi, grandi professionisti, appassionati di un Giappone autentico ma urbano, non folkloristico; Le Petit hotel du Grand Large, il talento di una coppia e l’intransigenza di una cucina saldamente ancorata al luogo (il magnifico ambiente naturale della costa atlantica della Francia), ma anche totalmente in linea con quello che succede nel mondo del cibo oggi.
Quali i vostri progetti legati alla ristorazione di maggior successo, secondo voi? Cosa ha funzionato al meglio?
I nostri posti! A parte gli scherzi, ovviamente nei nostri posti ovvero i due Dry a Milano e il caffè-panetteria Égalité, il ‘sentire’ del cliente e quello dell’architetto coincidono al 100%. E nei ristoranti che ho citato sopra, la sintonia con il ristoratore, o con lo chef-ristoratore.
Tornando indietro, cosa invece si potrebbe migliorare o cambiare?
Parlando di progetti che hanno funzionato, davvero poco. Ma qualche volta capita che per qualche ragione ci sia meno sintonia, e di conseguenza le cose funzionano meno bene o sono più faticose. La ricerca della sintonia tra la natura del ristorante e il nostro design è la chiave di questo tipo di progetti.
Se doveste investire in un ristorante oggi, in quale città lo fareste? E con quale tipo di progetto?
Ovviamente dipende dal tipo di progetto e dalla dimensione. In genere, converrebbe puntare su luoghi in cui la concorrenza è meno forte. Credo che la provincia italiana abbia molte potenzialità, per esempio. Oppure mi incuriosiscono le città della Mitteleuropa come Zurigo, Francoforte, Monaco di Baviera, Düsseldorf, Amburgo. Ma anche le repubbliche baltiche e l’est Europa. Eviterei certamente le città dove la competizione è già altissima, quindi centri come Parigi, Londra, New York, Los Angeles, Dubai, Hong Kong e Shanghai, ma anche le destinazioni stagionali o turistiche; quelli sono campionati diversi, e noi non siamo imprenditori del food a tempo pieno.
Qual è la vostra visione dello scenario milanese, anche rispetto a tutte le nuove riqualificazioni in atto? Penso alla città e i suoi nuovi ‘quartieri’, ma anche a grandi manifestazioni come le Olimpiadi invernali del 2026…
Certamente Milano è in grande fermento, in tutti i settori. Ha le qualità delle grandi città senza averne le dimensioni; è internazionale senza essere troppo turistica, o almeno non attaccata dal turismo di massa; ed è una città molto ben gestita e molto vivibile. Questo genera vita sociale, e lo sviluppo dei nuovi quartieri negli ultimi anni lo testimonia. Non solo naturalmente i due poli Porta Nuova e City Life hanno cambiato la città, ma quartieri storici come l’Isola, Porta Venezia, Porta Romana hanno cambiato faccia. L’avvento delle Olimpiadi metterà il turbo a tutto questo; ma la ristorazione resta un business in cui per avere successo bisogna costruire un’alchimia a volte difficile da creare; l’aumento inevitabile della concorrenza porterà senz’altro a un’asticella sempre più alta da superare.