Più che la manifattura, è la materia prima a dettare il livello di sostenibilità di un mobile o complemento d’arredo. Ma quando un materiale si può definire davvero sostenibile? Il parere di due esperti: Micol Costi e Jan Boelen
Affrontare i cambiamenti climatici, la scarsità d’acqua e l’economia circolare sarà decisivo per salvaguardare le generazioni future. Lo scriveva solo tre anni fa Thomas L. Friedman nel suo libro “Grazie per essere in ritardo: la guida di un ottimista per prosperare nell’era delle accelerazioni”. Lo ha confermato nel 2017 un’indagine del World Economic Forum (Wef), focalizzata sui millennials, dalla quale emergeva come il cambiamento climatico fosse, per il terzo anno consecutivo, una delle loro principali preoccupazioni globali (49%) e come fossero disposti a cambiare il loro stile di vita (78%) per proteggere l’ambiente. È quindi essenziale iniziare a tracciare linee guida e gli obiettivi nella progettazione e nello sviluppo di prodotti, servizi e tecnologie. A cominciare dai materiali, vero banco di prova per le aziende.
EVOLUZIONE NEL DESIGN
Il design ha vissuto, in parallelo al mondo della moda, una presa di coscienza legata a sfide basate nell’ideazione di tecnologie che lo mettessero al passo con le nuove esigenze ambientali e sociali. Ad affermarlo è Micol Costi, direttrice della ricerca di Material Connexion Italia – il più importante network internazionale di consulenza sui materiali e processi produttivi innovativi e sostenibili, con sedi negli Stati Uniti, in Europa e in Asia e con un archivio, sia fisico che online, che conta più di 7.500 materiali e processi produttivi. “Gli esempi validi – racconta Costi – esistono nel mondo della moda come in quello del design, ma mi permetto di dire che la moda ha comunicato meglio i risultati raggunti”. Nell’ambito del design esistono tecnologie sempre più sofisticate per arrivare a riciclare i prodotti. E si arriva fino a un materiale riciclato e certificato per il contatto con gli alimenti. “Una normale plastica riciclata, a partire dallo stesso tipo di rifiuto, non avrebbe potuto arrivare a tanto”. Soprattutto nella produzione industriale queste migliorie sono sintomatiche di quanto le tecnologie oggi possano arrivare laddove pochi anni fa non si sarebbe immaginato. Il sogno però s’infrange per i materiali non contemplati dai circuiti di raccolta differenziata dei rifiuti domestici per i quali spesso, secondo Costi, in Italia come nei Paesi esteri, oggi sono quasi assenti sistemi logistici dedicati. L’allarme è rivolto a quei rifiuti provenienti dal contract, dal settore fieristico o dagli allestimenti dei punti vendita. Secondo la studiosa, infatti, l’attenzione verso i materiali che viene dedicata alla realizzazione delle strutture, spesso manca al momento del disallestimento o rinnovo. “Quello che trovo molto interessante è che per questo motivo, soprattutto nell’ultimo paio d’anni, diversi produttori di materiali si siano attrezzati in maniera indipendente per offrire ai propri clienti la possibilità di rispedire al mittente il materiale dismesso”.
L’INGEGNO FA LA FORZA
Chi fa per sé fa per tre, si potrebbe dire, e per fortuna non mancano alcuni esempi illuminati sia a livello sperimentale che (semi) industriale. La stessa Material Connexion, ad esempio, ha collaborato a un recente progetto di ricerca (Life M3P) insieme a partner provenienti da Italia, Belgio, Grecia e Spagna, dedicato allo sviluppo di un sistema di valorizzazione di rifiuti industriali. Con lo scopo di favorirne la trasformazione in applicazioni inconsuete, infatti, il team internazionale ha creato una piattaforma online per la catalogazione dei rifiuti, piattaforma basata sulla caratterizzazione e classificazione delle loro proprietà. Ma esistono anche esempi di studi di design indipendenti che portano avanti sperimentazioni e percorsi decisivi per un nuovo approccio all’uso dei materiali. Come i belgi di Studio Plastique che con Out of the Woods stanno cercando di ristabilire un uso equilibrato del legno, sottolineando che non sia un materiale sostenibile, e spostando l’attenzione sull’elaborazione degli scarti (corteccia, fogliame, spine, resina naturale) per realizzare prodotti incredibilmente resistenti, come ad esempio dei mattoni. Oppure come Pentatonic, primo marchio a utilizzare esclusivamente rifiuti e a garantirne un ciclo continuo di applicazioni, che ha recentemente collaborato con lo studio newyorkese Snarkitecture per la collezione Fractured. Ricorrendo a una tecnologia all’avanguardia, il progetto ha previsto la realizzazione di un tavolo e delle sedute utilizzando solo rifiuti post-consumo, come lattine per bevande, custodie per computer, bottiglie d’acqua e coperchi di tazze di caffè.
IL RICICLO NON RISOLVE
Se da un lato l’avanguardia apre a nuovi scenari, dall’altro sono la cultura, l’informazione e l’educazione a rappresentare i canali attraverso cui avviare il cambiamento della società. Ne è convinto Jan Boelen, direttore artistico di Atelier Luma, laboratorio sperimentale per il design ad Arles, in Francia. Boelen è stato il curatore dell’ultima edizione di Istanbul Design Biennial in Turchia, e co-fondatore oltre che direttore artistico dell’European Design Parliament, progetto di cooperazione transnazionale che cerca di guidare il cambiamento del design nel XXI° secolo. “Oggi – afferma – il design è in crisi. Deve cambiare e adattarsi ai tempi contemporanei e l’Europa, culla del design, dovrebbe guidarne la trasformazione”. Secondo lo studioso, il tempo è già scaduto e l’urgenza di agire è più che mai caratteristica del presente: “Penso sia molto importante ricreare una connessione con la Terra e con i materiali naturali, dai quali ormai siamo quasi completamente disconnessi”. Agire sì, ma non nell’ottica del riciclo. Secondo Boelen, infatti, quello del riutilizzo è un problema inventato per risolvere un altro problema, perché mantiene un sistema economico che crea profitto per pochi ma non risolve il pericolo per molti. “Non dobbiamo tenere il circolo chiuso. Il riciclo è solo un’illusione, non la soluzione”, ci spiega. “Non penso che la plastica sia un materiale cattivo, anzi. Una sedia di plastica se dura 40 o 50 anni va benissimo. Il problema sorge quando sono messe in commercio sedie di plastica scadente. È così che il materiale prende una nomea negativa”. In sostanza, per lo studioso la colpa non è del materiale più incriminato della storia, ma piuttosto del design che non lo supporta. La strada da percorrere invece porta ai cosiddetti bio-materiali e a progetti di design circolare: gli esempi che nascono da nuove soluzioni sostenibili sembrano infatti essere la risposta a un futuro che invita l’abbandono di materiali tradizionalmente intesi, considerandone il costo dannoso sull’ambiente. Esempi sono l’Algae Lab, paragonabile alla plastica ma originato da alghe che vengono seccate, trattate e poi lavorate con stampanti 3D, o Salt Crystals che prevede l’uso del sale del paesaggio vicino Arles come materiale vergine da esplorare e lavorare con stampe 3D, pressatura e cristallizzazione. È possibile, ma dobbiamo iniziare ora.