Stefano Boeri e la pandemia come occasione per ripensare il rapporto tra uomo e natura, partendo da un’altra idea di città. E ripartendo da Milano, con cinque azioni precise e con interventi di social housing per recuperare l’energia pre Covid-19 e ottenere una città economicamente più accessibile.
Stefano Boeri aveva captato fin da gennaio la gravità della situazione covid-19 perché il suo studio dispone anche di una base a Shanghai, dove operano 25 persone, ed era stata chiusa già a metà febbraio. Quando il contagio è arrivato a Milano, Boeri non ha esitato: tutti in smart working e, nel giro di pochi giorni, giù i battenti in attesa di tempi migliori. “Questa pandemia – racconta il fondatore e socio di Stefano Boeri Architetti – ci conferma da un lato l’effettiva globalizzazione del pianeta, dall’altro l’asimmetria della stessa globalizzazione. Viviamo infatti in una sorta di universi temporali paralleli, per cui in Cina i cantieri sono già ripresi, in Italia tutto è chiuso e negli altri Paesi dove
siamo presenti la situazione, a inizio aprile, sta peggiorando. È una simultaneità di eventi davvero particolare, mai vissuta prima”
Tra architetti sarete in stretto contatto, per capire quali possano essere le conseguenze e le risposte…
Ci sentiamo costantemente anche tra colleghi internazionali. Nel mio caso, con lo studio newyorchese Diller Scofidio + Renfro, che ha curato tra le altre cose la Highline e l’ampliamento del Moma, perché assieme a loro stiamo partecipando a un concorso internazionale. C’è uno scambio costante di vedute e preoccupazioni, perché a New York
la tensione è altissima. Le preoccupazioni riguardano l’aspetto della salute e le conseguenze economiche dello stop. Le nostre, del resto, sono imprese che vivono di lavoro, perché non abbiamo capitali e liquidità così importanti da
poterci garantire una lunga sopravvivenza senza essere attivi.
Molti studi sono convinti che il mondo della progettazione dovrà ridurre gli organici. Lei è d’accordo?
Spero di no. La scelta fatta dalla mia società, partendo da me e dai miei due soci, è stata quella di ridurci gli stipendi per non lasciare a casa nessuno. Lottiamo per mantenere ogni posto di lavoro, dal giovane stagista al collega con più esperienza, e lo facciamo perché questo è il momento in cui occorre tenere alta la guardia, condividendo i sacrifici.
Il vostro studio è presente anche a Tirana. Come procedono le cose in Albania?
L’onda è arrivata in ritardo, ma ad aprile la maggior parte dei cantieri ha iniziato a chiudere anche in Albania, e chi è rimasto aperto opera comunque in maniera ridotta. Spero che anche lì vada tutto bene, perché è molto bello per noi
lavorare a Tirana e in Albania, dove ci sentiamo a casa. Ed è stato altrettanto bello ascoltare le parole, indimenticabili, del premier albanese Rama quando ha inviato i medici del suo Paese in Italia, sottolineando che in Albania si ricordano di quanto abbiamo fatto noi italiani per loro.
Il virus ha colpito Milano quand’era forse al massimo del suo splendore. Secondo lei tornerà a essere quella città pulsante che abbiamo conosciuto fino al 21 febbraio?
Le dirò di più: secondo me è rimasta tale. A costo di sembrare ipocrita, ho trovato alquanto strepitoso il modo in cui Milano, dopo qualche errore iniziale, si è chiusa in una sorta di sacrificio collettivo per difendere le fasce più deboli della sua popolazione. È questa, del resto, la Milano che mi piace e che ho sempre conosciuto, protesa all’innovazione e allo stesso tempo alla generosità. Ora mi auguro che una simile potenza collettiva si possa spostare nella direzione della ripartenza. Con cinque azioni da mettere subito in atto.
Quali sono queste cinque azioni?
La prima è ripensare al sistema della sanità, con più laboratori di quartiere e più medici di base per supportare un sistema ospedaliero comunque eccellente. La seconda è legata alla mobilità: Milano dovrebbe mettere una pietra tombale definitiva sulla scelta dei combustibili fossili, diventando la prima città europea che si sgancia da questa
dipendenza, facendo leva su auto elettriche, sharing, una rete eccellente di trasporti pubblici, limitando i danni alla salute che non sono certamente una causa primaria di quanto è accaduto, ma possono essere una concausa. Terzo punto: occorre moltiplicare gli spazi verdi attorno alla città, perché così si riducono polveri sottili, temperatura esterna e anidride carbonica. Quarto: uno sforzo enorme sul tema delle energie rinnovabili per arrivare all’autosufficienza di interi quartieri. Infine, occorre un contributo di rilancio da parte di architettura ed urbanistica. Perché Milano, nei due dopoguerra del Novecento, ha fatto scelte straordinarie in continuità con la sua storia, ma con una forte dose di coraggio. E ora è il tempo di riproporre quelle scelte.
In che modo?
Abbiamo un numero consistente di edifici obsoleti, degradati ed energivori che possono diventare il fulcro di progetti in grado di dare linfa ai settori delle professioni, del legno e dell’arredo. Sarebbe una ripartenza ideale.
Limiterebbe quindi la progettazione sull’esistente, senza ulteriore consumo di suolo?
Assolutamente sì. La proposta di legge sul blocco del consumo di suolo sta morendo tra le carte dei governi che si sono succeduti negli anni, ma andrebbe approvata domani. L’idea virtuosa è quella di un’edilizia che recupera o demolisce per poi sostituire, senza mai aumentare la superficie coperta. Aggiungo un mio punto di vista: far pagare oneri di urbanizzazione a chi demolisce un edificio obsoleto e degradato, per realizzarne uno nuovo e sostenibile, è uno scandalo italiano.
Quando si riferisce a edifici energivori, intende anche quelli pubblici?
Intendo, per essere chiari, anche la Triennale. Prima della pandemia, avevamo trovato modo e risorse per intervenire risolvendo i problemi dell’edificio, che richiedeva una totale ridefinizione del sistema impiantistico ed energetico. Ora dovremo riaffrontare tutto, ma sarà uno dei primi interventi da mettere in atto.
In definitiva: la ripartenza di Milano dovrebbe iniziare da investimenti pubblici?
So che potrebbe esserci il rischio di intravedere un interesse personale in quel che affermo, ma nella storia di Milano è sempre stato così. Lo fu per esempio negli anni Venti, con la realizzazione di strutture quali il Palazzo di Giustizia, la Stazione Centrale, la stessa Triennale.
Cosa ne sarà del ciclo di sviluppo avviato nell’ultimo decennio? Si attende uno stop del circuito positivo che era stato avviato?
Milano, a mio parere, è una città sempre in movimento. Lo era anche negli anni Novanta, quando la stasi era solo apparente, mentre in realtà il territorio continuava a mutare, anche se erano entrate in campo energie più molecolari e individualiste. Quell’energia di fondo non è mai venuta meno e ora mi auguro si possa concretizzare in una moltitudine di piccoli interventi di qualità. Sarebbe però opportuno che, assieme a questi piccoli interventi, ci fosse spazio per un grande progetto dedicato alle scuole pubbliche, ambito dove assistiamo a un degrado assoluto. E poi, auspico tanti investimenti con capitali privati sull’edilizia residenziale di base e la trasformazione di uffici in residenze sociali. La vera sfida è nell’edilizia a basso costo d’affitto.
E il real estate come fonte di investimento? Come può combaciare con un’edilizia di tipo accessibile?
Il tema dell’investimento non è agli antipodi rispetto a quello della vivibilità. Partiamo da un dato di fatto: a Milano arrivano studenti da tutta Italia e dall’estero, si fermano qualche anno e poi scappano, perché non riescono a sostenere le spese di affitto. Oggi anche le grandi società di real estate sono consapevoli che una città con eccessive
disparità, una metropoli che soffre e non funziona, alla fine non funziona neppure per il mercato immobiliare. Perciò mi auguro, e sono abbastanza convinto che accadrà, una maggiore attenzione anche da parte del libero mercato edilizio. La città è un elemento osmotico. Una città dove la gente vive male, e dalla quale i giovani scappano, è una città dove va male anche chi progetta i grattacieli.
Lei si aspetta che l’umanità del post Covid-19 possa essere migliore del pre-contagio?
C’è un ‘se’. Me lo aspetto se saprà acquisire la consapevolezza che questo evento, certamente inaspettato, segnalerà l’urgenza di modificare totalmente il nostro rapporto con la natura e con il mondo in senso lato. In Triennale, poco prima del contagio, era stata chiusa una mostra, Broken Nature, dedicata al design e all’architettura che possono in qualche modo ricomporre quel rapporto interrotto tra uomo e natura, dove il primo aveva eroso e contaminato la seconda. Ora è la natura ad aver contaminato l’uomo, per cause probabilmente riconducibili all’uomo. Per questo l’uomo dovrà rivedere molti aspetti del modo in cui sta al mondo e si misura con le altre specie viventi. Partendo da
un riequilibrio, da una coabitazione urbana con quelle specie animali e da un’idea differente di metropoli.
di Paola Tronconi