La cucina ai tempi di Amazon nell’interpretazione di Bulthaup è uno spazio dove il tempo rallenta e nel quale le persone entrano in comunicazione attraverso il cibo. Parla il CEO Marc O. Eckert.
Benvenuti nella social kitchen age. Uno spazio da vivere e condividere, ispirato in parte dalla cultura giapponese e in parte dallo stile di vita ai tempi di Amazon. Da questa filosofia di pensiero inizia il colloquio con Marc O. Eckert, CEO di Bulthaup, brand che ha il merito di aver trasformato l’idea internazionale di cucina tedesca da pura funzionalità a qualcosa di più complesso, di più profondo. Talmente profondo – verrebbe da dire – che per presentare a Milano la novità b.architecture, la società di Bodenkirchen (Baviera) ha scelto come location una chiesa, sebbene sconsacrata: quella di San Carpoforo in Brera, dove l’allestimento studiato da Bulthaup ha trasmesso al pubblico l’idea di interazione tra gli elementi cardine del progetto per offrire emozione e piacere: il piacere di stare a tavola. “Abbiamo aggiunto una dimensione alla nostra cucina, la terza. Dopo il prodotto e lo spazio, si è inserita la dimensione del tempo, quello trascorso all’interno di questo spazio e utilizzando il nostro prodotto. Un tempo nel quale cucinare non è più azione solitaria, diventa comunicazione”.
Come si è inserito l’elemento temporale?
Viviamo nel tempo di Amazon, che raccoglie dati sulle nostre esistenze e sa esattamente quando mangiamo, cosa mangiamo, cosa compriamo al supermarket, come viviamo. E oggi, possiamo essere single o sposati, avere o non avere figli, ma la cucina è esattamente lo specchio del modo in cui viviamo. E se viviamo nel tempo di Amazon, dobbiamo da un lato guadagnare tempo attraverso l’utilizzo della tecnologia e dall’altro goderci il tempo che trascorriamo insieme.
Quali cambiamenti determina tutto questo in una cucina?
Oggi una cucina, per come la concepiamo noi, non è soltanto una soluzione di arredamento, è un ambiente dove assaporare la qualità dei momenti condivisi. L’hotspot non è più il piano cottura davanti al quale si posiziona chi cucina, ma è la preparazione in sé, che contempla la conoscenza del buon cibo, il cucinare come un atto di comunicazione. Quando si taglia un pomodoro e una mozzarella, ciò che conta non è più solo l’atto di tagliare, è l’apprezzamento di un pomodoro di qualità e una buona mozzarella di bufala, è lo scambio di tempo disponibile tra due persone.
Siamo all’addio delle esibizioni domestiche di chef blasonati?
Sì, ed è il riflesso di quanto sta accadendo nei ristoranti d’alta cucina. Otto o dieci anni fa, in questi locali che servivano champagne, caviale e foie gras, la stella era indiscutibilmente lo chef. Oggi la vera star è l’ospite, ed è a lui che si rivolge lo chef, uscendo in sala, sedendosi al suo tavolo, spiegandogli perché ha scelto quell’ingrediente e non un altro, quel tipo di pomodoro e non quell’altro. Nel tempo di Amazon e della digitalizzazione, il tempo dedicato al cibo, anziché accelerare, sta decelerando. Accade perché la gente lo desidera, perché vuole godersi questi momenti. E allora un bel pomodoro, da ingrediente, diventa quasi un simbolo, e tagliare il pane si trasforma da azione quotidiana in fatto estetico. Ecco una prova (indica le persone sedute attorno al tavolo della b.architecture, ndr). Queste persone entrano nella chiesa con una certa frenesia, si accomodano e subito il ritmo rallenta. Gli arredi diventano punti di aggregazione per stare bene insieme.
Qual è l’ispirazione di fondo? Notiamo una forte impronta Asian in tutto questo…
C’è un forte richiamo al Giappone, alle Ryokan (guest house tipiche) e agli agari-kamachi dove gli ospiti devono liberarsi delle scarpe, come atto per riunire anima e corpo nello stesso luogo ottenendo così un pieno apprezzamento della bellezza dello spazio. Una pietra segna il punto dove le persone, nelle Ryokan, devono togliersi le scarpe, e noi all’entrata della chiesa abbiamo offerto il rituale dell’oshibori, perché il significato fosse più o meno lo stesso. È anche un ritorno all’essenza.
Il design delle vostre cucine è interno o esterno?
Tutto interno, perché gli stimoli nascono da dentro. E in ogni caso, tutto questo non ha nulla a che fare con il design, perché non lo consideriamo tale. È pensiero, non design. Si impara più osservando una guest house in Giappone che non pensando al design in sé. Così noi creiamo i nostri ambienti.
Se dovesse evidenziare i punti di forza di Bulthaup, quali sceglierebbe?
Si parla sempre della qualità, della funzionalità tedesca, dell’engineering che sta alla base delle nostre cucine. Ma c’è qualcosa di più profondo. Bulthaup non è quel che la gente vede, è quello che il nostro cliente sente. È il frutto di una passione trasmessa nel prodotto e nello sviluppo dei concept. Spesso ho l’impressione che la gente abbia compreso come Bulthaup inizi laddove finiscono i macchinari, e che il risultato non sia solo la realizzazione di un processo fatto con le macchine ma sia qualcosa di più.
Quanto vale per voi la Germania e quanto il resto del mondo?
Oggi il nostro giro d’affari dipende per il 20% dalla Germania e per il restante 80% dall’estero. Le aree dove cresciamo più rapidamente sono l’Asia e gli Stati Uniti. L’Europa, Germania compresa, genera il 60% del fatturato ed è stabile, mentre la crescita sta avvenendo extra Ue. Tra le aree dove siamo in forte ripresa compaiono anche diverse nazioni dell’America Latina.
Come avete chiuso il 2017 e quanto prevedete a fine anno?
Il 2017 è stato un buon anno. Abbiamo chiuso l’esercizio a circa 150 milioni di fatturato, con un aumento del 10% rispetto al 2016, principalmente grazie ai progressi ottenuti in Asia e negli Usa. Per il 2018 pensiamo a una stabilità o al massimo a una crescita moderata, perché la situazione di mercato è particolarmente volatile e non crediamo sussistano le condizioni per ripetere un risultato altrettanto consistente.
Quanto valgono retail e contract?
Il 70% del fatturato dipende dal retail e il 30% dal contract. Quest’ultimo si sta muovendo piuttosto bene ma è un business altrettanto volatile.
Il wholesale come lo vede?
In piena difficoltà. Credo che tutti i retailer si stiano chiedendo: cosa posso fare per uscire da questa situazione? Basti vedere quel che accade negli Usa, dov’è in atto una vera e propria apocalisse del retail. Ma tutti, compresi noi produttori, dobbiamo farci le stesse domande: cosa faremo domani? Come potremo reagire alle difficoltà? Perché il successo di ieri può essere causa del fallimento di domani.
Nei mercati internazionali, con chi vi trovate in competizione? Con gli italiani forse?
Negli Stati Uniti certamente sì. Per il consumatore americano, le uniche vere alternative agli arredi tradizionali o sono il design concepito all’italiana, che la gente spesso adora, oppure la funzionalità tedesca. Dipende da quel che il cliente finale sente, da quanto va cercando, come se dovesse scegliere tra una Maserati o una Porsche. In Cina probabilmente la situazione è diversa, e operiamo in un terreno più favorevole.
Voi fate cucine, ma la gente mangia sempre meno a casa e sempre più al ristorante. Quali tendenze si trasmettono dalla ristorazione alla cucina domestica?
La situazione nella ristorazione, tutto sommato, è simile a quella dell’industria del mobile. I concetti di social living che noi abbiamo inserito nelle nostre cucine sono gli stessi che hanno premiato quei ristoratori nei cui locali la gente sta bene, e dai quali torna a casa con un buon ricordo. Perché ognuno di noi ha un ristorante preferito e in quel ristorante non sarà mai la bontà del cibo a fare la differenza, pur essendo necessaria, ma sarà sempre il fatto di sentirsi come a casa, di sentirsi bene. E il proprietario di un ristorante, oggi, si rende certamente conto del fatto che la star non è più lo chef, non è più l’ambiente e non è più il pasto. The guest is the star.
di Andrea Guolo