“Cambiamo tavolo. Lo sente che questo non è bello da toccare?”. Non sfugge nulla a Rossana Orlandi, infallibile cacciatrice di talenti e tendenze. Lo sguardo è un radar dietro gli occhiali bianchi XL, ormai il suo brand insieme alle lunghe mani con le unghie laccate di rosso, che si muovono leggere mentre sfiorano superfici di plastica riciclata o di legno carbonizzato. Cresciuta in una famiglia di filatori, è stata compagna di banco di Franco Moschino all’Istituto Marangoni e, nei dorati Ottanta, è consulente dei grandi: da Armani a Kenzo, da Versace ai Missoni. Nel 2002 apre la sua galleria in un’ex fabbrica di cravatte a due passi da Sant’Ambrogio a Milano: 1700 metri quadrati traboccanti di sorprese, disposti intorno a un cortile coperto da un pergolato di uva fragola.
È qui, al civico 14 di via Matteo Bandello, che “la RO” setaccia da vent’anni il mare magnum della creatività. Senza mai sbagliare un colpo. Come si spiega la sua svolta dalla moda al design?
Ho avuto la fortuna di vivere in uno dei periodi più effervescenti del Dopoguerra. In Italia, e in particolare a Milano, si respirava un’atmosfera di libertà senza precedenti. Come esperta di tessuti, ho collaborato con tutti gli stilisti della mia generazione: insieme si viaggiava, si faceva ricerca, ci si confrontava, si lavorava con fotografi straordinari e si aveva come l’impressione di abitare dentro una bolla magica. Poi, poco per volta, ha preso forma il fashion system con i suoi riti, lo strapotere della comunicazione, le leggi ferree del marketing… E a me quel mondo, così com’era diventato, non è piaciuto più.
Si è conclusa una Design Week molto attesa e ricca di significati, durante la quale si è festeggiata la sessantesima edizione del Salone. Un bilancio dell’evento?
Abbiamo assistito al grande ritorno di Milano e dell’Italia, con un ottimo riscontro da parte di pubblico ed espositori. Complimenti a Maria Porro, la presidente del Salone del Mobile, che è riuscita a centrare un obiettivo di questa portata in un contesto storico e sociale così complesso. Dopo un lungo periodo che ha messo al centro della nostra esistenza la solitudine, l’ultima Week è stata anche una meravigliosa occasione per incontrarsi e tornare a tessere relazioni di scambio e di vicinanza. Quanto alle proposte, mi sarei aspettata più idee legate al mondo post pandemia, qualche strumento di design dedicato a chi fa smart working o pensato per il care giving… Fra gli eventi, ho apprezzato, in particolare, See The Stars Again, la mostra curata da Flos con lo studio Calvi Brambilla, che per i sessant’anni dell’azienda ha trasformato i vecchi spazi industriali della Fabbrica Orobia in un hub esperienziale. E da Boffi mi ha fatto piacere ritrovare la Minikitchen di Joe Colombo, un visionario che riusciva a creare oggetti funzionali e futuribili dotati di un elevato contenuto estetico.
Il Compasso d’Oro, che ha ricevuto a giugno, ha premiato la sua lunga carriera di talent scout. Come è cambiata la professione?
Il Compasso d’Oro non me lo aspettavo, ma la cosa che più mi ha emozionato è stato il fatto di poter incontrare, durante la cerimonia di consegna, parecchi giovani premiati. Cito per esempio Cristian Fracassi, il CEO di Isinnova, un’azienda bresciana dove è stata inventato l’Easy Covid-19, un respiratore assemblato a partire da una maschera da snorkeling e distribuito gratuitamente agli ospedali durante la pandemia. Ecco: per fare il mio mestiere, oggi, si devono intercettare e valorizzare soluzioni di questo tipo, basate su capacità tecniche innovative e su un design etico, gentile e sostenibile, che fa leva su quanto si ha già a disposizione. Evitando di creare nuovi rifiuti.
Ormai in Rete si trova tutto: ha ancora senso parlare di cool hunting?
Non bisogna mai smettere di ascoltare: la vita, la persone, le cose che scoprono e ti raccontano, i luoghi che hanno visitato. Da sempre mi muovo seguendo il mio intuito, perlustrando contesti e aree geografiche anche apparentemente marginali e poco frequentati. La nuova frontiera del design è l’Africa, e non a caso nel 2021 il Ro Plastic Prize, la challenge del progetto internazionale RoGUILTLESSPLASTIC che curo con mia figlia Nicoletta Orlandi Brugnoni, è stato vinto per la sezione ‘Conscious Innovation Projects’, dal team Ecoact Tanzania, che ha ideato una trave per l’edilizia fatta di scarti di plastica che era difficile da spedire. Così ci hanno mandato in Italia un campione lungo 7,5 centimetri, meraviglioso, che trasformerò in un ciondolo. Certo, scandagliare Internet può aiutare ma si rischia di prendere abbagli, le foto dei progetti possono essere ritoccate, anche se a volte ho avuto delle sorprese positive: come mi è accaduto con le sculture a ventagli mobili degli ucraini Smith & Winken, che avevo notato nel sito della galleria Kazerne di Eindhoven e che ho fatto arrivare in galleria a scatola chiusa per la Design Week.
Quali sono le peculiarità che caratterizzano i giovani designer di successo?
Vedo una vasta platea di under 30 che galleggia in superficie lasciandosi cullare dall’onda, ma c’è per fortuna una fetta di creativi – e tanti sono italiani – che hanno idee straordinarie. Il compito nostro, di noi che abbiamo già qualche anno sulle spalle, è quello di individuare e motivare questi talenti e di metterli in contatto con i centri di ricerca e le aziende, offrendo loro gli strumenti per crescere. L’Italia è il terzo Paese al mondo per l’innovazione, eppure la gente che vale continua a emigrare. Di un designer, di qualunque età, mi devono incuriosire anche la mentalità, l’obiettivo da raggiungere, il metodo, ed è soprattutto su questi aspetti che poi si entra in sintonia. In passato mi è successo così con i Formafantasma, Maarten Baas e Piet Hein Eek; poi ci sono state scoperte più recenti, come per lo spagnolo Sergio Roger, che realizza sculture di gusto classico assemblando tessuti di recupero, o i ragazzi dello Studio Mandalaki, che con le lampade della collezione Halo, pensate per proiettare su pareti o soffitti la luce dell’alba o del tramonto, creano ambienti dal forte impatto poetico e decorativo.
Consigli per le nuove generazioni?
Quando si progetta, si deve essere onesti: occorre cioè credere in ciò che si crea e mai sedersi sugli allori, diventando copie di se stessi. Ed è indispensabile continuare a cucire nuove relazioni, scambiare, condividere. In questo modo il design diventa empatico.
Lei è stata un’antesignana quanto a valorizzazione dei materiali riciclati e sul fronte della sostenibilità. A che punto siamo?
Preferisco parlare di sostenibilità ‘responsabile’, per sottolineare che ciascuno deve fare la propria parte e che è essenziale rendere sostenibile l’intero processo produttivo in una chiave di filiera. Per le aziende questa è una scommessa ma anche un impegno non da poco: per essere davvero sostenibili occorre sostituire impianti e riconsiderare anche le modalità di distribuzione, e non si fa dall’oggi al domani. Sono convinta che chi non sale su questo tram adesso è destinato a rimanere a piedi.
Come nasce il suo “amore” per la plastica?
Da un’osservazione molto semplice: la plastica, ma in particolare i rifiuti di plastica, hanno invaso il pianeta e, giunti a questo punto, mi pare doveroso riutilizzarli per smaltirli – se possibile – in maniera creativa. Si è calcolato che, dalla sua apparizione a fine Ottocento, nel mondo siano stati prodotti circa 8 miliardi di tonnellate di plastica e più della metà è finita negli inceneritori. Oltre 322 milioni di tonnellate arrivano sul mercato ogni anno e, di queste, 8 milioni vanno negli oceani. Ecco perché ammiro le ong come Sea Sheperd, che combatte la pesca abusiva con le reti a strascico che distruggono i fondali e spesso li inquinano, e aziende come la Aquafil di Giulio Bonazzi, che ha brevettato un eco nylon che nasce dal riciclo delle reti. Di fatto, la plastica è dappertutto, troppo. Il vero problema, quindi, è legato, oltre che alla produzione eccessiva e non giustificata, alle modalità di smaltimento e al riuso.
L’altro grande tema è quello del waste, e cioè dei rifiuti generici…
…Che possono essere trasformati in qualcosa di nuovo, sempre: a questo proposito, mi vengono in mente il lavoro di Emanuela Crotti, che per i suoi arredi riutilizza i residui di lavorazione del vetro delle fornaci di Murano combinandoli con carte da gioco, piccoli giocattoli, ritagli tessili, minuterie, elementi vegetali immersi nella resina trasparente, o le poltrone di Martin Schuurmans, fatte di scarti di cemento. Si deve inoltre puntare sempre di più su materie prime virtuose, come l’alluminio e il vetro, che sono riciclabili all’infinito. Il motto “Save the waste, waste is value” dovrebbe diventare un mantra per tutti, applicabile in qualunque contesto. Lo abbiamo visto di recente con la collettiva Gentle Touch of re-Waste, nell’ambito della quale una trentina di designer, da Stefano Boeri a Patricia Urquiola, hanno progettato una seduta per esterni in materiali da riuso ed è stata creata un’installazione nei giardini vicino a San Vittore: a fine evento, ci è rimasto in mano un chilo di rifiuti, tutto è stato smaltito. E per la prossima Milano Design Week, Esselunga si è già impegnata a riabilitare questo polmone di verde accanto alle mura del carcere.
I luoghi destinati alla vendita dei prodotti di design che fine faranno?
La formula del negozio tradizionale poco per volta tramonterà. Sono invece incuriosita dagli sviluppi del metaverso, penso che sarà un’enorme opportunità. D’altronde questo spazio virtuale porta in sé il prefisso ‘meta’, che allude a un ‘passare attraverso’ e dunque a una fase di trasformazione ad altissimo potenziale creativo. Anche il mondo delle aste sta cambiando: non ci sono più solo Gio Ponti e i fratelli Eames, oggi si investe sui pezzi unici di art design visti alle mostre o nelle gallerie e selezionati dai curatori. E sta crescendo una forte domanda di opere uniche o a tiratura limitata in mixed media, come per esempio i lampadari di Diederik Schneemann o le finestre di Anotherview, che racchiudono uno schermo dove scorrono le immagini di luoghi iconici – il Canal Grande a Venezia piuttosto che il Muro del Pianto a Gerusalemme – registrate da una telecamera attiva h24.
Previsioni per il futuro prossimo?
In questo mondo così ansiogeno e distratto, il virus ha fermato la nostra folle corsa e ci ha aperto gli occhi sulle vere priorità. Il design sarà sempre più connesso con l’innovazione per la tutela dell’ambiente e della salute. Si vive più a lungo e serviranno sedie a rotelle pratiche da usare e belle da vedere, letti medici funzionali ed esteticamente gradevoli, accessori per i bagni ergonomici e colorati come i sedili e i maniglioni per la doccia di Lifetools, non a caso premiati col Compasso d’oro nel 2020. Perché una stampella dev’essere per forza così brutta? Se fosse più graziosa, magari ci potrebbe aiutare a guarire prima.