Dalle ‘case’ e dai padiglioni, Francesco Librizzi ha trasferito al design del prodotto la sua ossessione per lo spazio. “Oggi mi piace immaginare che si sia a un punto significativo dell’abitare”.
Le sue opere lavorano sulle caratteristiche essenziali dello spazio e sul modo in cui questo viene influenzato da oggetti, strutture e, soprattutto, dagli esseri umani. Francesco Librizzi legge lo spazio architettonico come un susseguirsi di vuoti e pieni, e ha deciso di applicare anche al prodotto questa visione, tanto semplice quanto filosofica. Nella sua carriera spiccano prestigiosi premi internazionali e menzioni speciali, oltre a progetti architettonici eccellenti come Casa C e Casa di G, o gli allestimenti per il Padiglione italiano alla XII Biennale di Architettura di Venezia (2010) e per il Bahrain Padiglione alla XIV Biennale di Architettura di Venezia due anni dopo. Quando poi, nel 2016, per la XXI Triennale di Milano, cura un’installazione della mostra “Stanze. Nuove filosofie dell’abitare”, l’attenzione viene traslata verso le qualità spaziali degli oggetti facendo nascere le collaborazioni con Driade e con Fontanaarte.
Architetto che si affaccia al design: che scenario si profila in Italia? Ci sono dei trend?
Lo scenario dell’architettura è molto vario. Esiste una notevole differenza, tra i progettisti, tra le diverse generazioni e tra gli ambiti di progettazione: chi fa interiors, exhibition e anche design, chi fa soltanto architettura, e chi fa entrambi. La mia generazione è la prima che ha esplorato il digitale, ne ha sondato le potenzialità e se ne è anche saputa liberare, aprendo la possibilità di un buon approfondimento di tutti gli strumenti della disciplina, anche apparentemente obsoleti come il disegno. è anche la generazione che ha vissuto l’ultima parte di quel fenomeno tutto novecentesco chiamato ‘modernità’. La mia generazione è la prima che ha anche riaperto un dialogo con la storia, senza sensi di colpa o ‘peccati postmoderni’. Le conseguenze di quanto sopra ovviamente sono molto diverse a seconda della poetica di ogni professionista, ma anche a seconda delle declinazioni del mestiere. In architettura ciò ha portato a una attenzione più profonda a tipologie e tecnologie non ossessionate dalla modernità. Nel design e negli interni ha prodotto un’attenzione a materiali, forme e arredi premoderne, capaci di accogliere la decorazione e materiali pregiati. Oggi mi piace immaginare che si sia a un punto significativo dello spazio, della luce e dell’abitare. La scoperta di questo per me vuol dire saper leggere lo spazio e saperlo poi raccontare.
Come è iniziata la collaborazione con Driade?
Ho cominciato con Driade presentando un progetto che si chiama ‘Io, lo spazio, le cose’. Non arrivo dal mondo del prodotto, ma da quello dell’architettura. Mi occupo di interior design ed exhibition design e la mia esperienza nel trattare lo spazio mi ha permesso di parlare di prodotto con l’azienda nel modo più onesto possibile. Sono un designer dello spazio, non dell’oggetto.
Da dove arrivano le idee che avete presentato al Salone?
Il primo prodotto è spazio puro, è una serie di set infiniti, nella quale ogni cosa che viene appoggiata sui piani diventa infinita. è tutto un gioco di pieni e vuoti. Nelle case, negli appartamenti non esiste solo la necessità di introdurre degli oggetti, ma vi sono degli spazi di ordine diverso che servono a contenere quegli oggetti. Da qui è nato il primo prodotto, Still Life, e da lui poi tutta una dichiarazione d’intenti e l’intera collezione che ho disegnato per loro. In generale, c’è sempre la volontà di abitare tutto il volume senza che questo diventi una massa ingombrante nello spazio.
Come i tavoli?
Sì esatto, ma che non si limitano a quella funzione. Diventano scenari d’appoggio, il tipo di vuoto che creano è molto più importante del pieno. La casa è uno spazio più denso, senza essere caricato in un’estetica della sparizione, dell’assenza.
Driade ha messo in atto quest’anno una Revolution, si ritrova?
Sì, penso che l’aspetto più bello della progettazione sia fare qualcosa che tutti conoscono ma che non hanno ancora visto. Non è un principio d’invenzione, ma è quando sveli qualcosa che è sempre stata lì. è la forza ad esempio dell’arte contemporanea.
È un’evoluzione o una rivoluzione?
Forse si può definire continuità, non coerenza ma continuità. è una rivoluzione perché per me è la scoperta della scala di grandezza delle cose e la dimostrazione che il mondo dell’architettura e del design non sono la stessa cosa, così come il mondo del design e dell’arte o della moda. Sono incroci e intrecci, ma non le stesse competenze. Per me è un nuovo inizio. Vediamo!
Questo approccio vale anche per la collaborazione con FontanaArte?
L’operazione con loro è stata ancora più coerente. Trattandosi di luce, vuol dire creare dello spazio con qualcosa che esiste, ma che non ha corpo. Con la serie Setareh, che è composta da 5 varianti di lampade, ho provato a fare proprio questa operazione. La luce ha una sua presenza, esattamente come gli oggetti, ma mi sono interrogato su come renderla visibile. La soluzione sono dei telai molto sottili che si irradiano di raggi luminosi, e ne evidenziano il percorso e la presenza.
Sulla base di queste nuove collaborazioni, quali sono le differenze tra il mercato dell’architettura e quello del design?
Il mondo del design è molto più popolare, in senso tecnico. Ha cioè un contatto molto più diretto con il mondo degli utenti. L’architettura si confronta con i cittadini in seconda battuta, e su un arco di tempo che può durare secoli. Il design si confronta con le opinioni dei suoi utenti in maniera preliminare, diretta. Quasi come i sistemi di governo stanno al voto dei cittadini, così i progetti di design basano la loro vita su un consenso immediato che migliaia di persone esprimono con l’acquisto. Ciò produce ritratti più istantanei del mondo in cui viviamo. Ciò significa anche che il design è più influenzabile e genera un’influenza più rapida. Per questo il mercato del design è più facile da attivare di quello dell’architettura.
Quale dei due preferisce?
Mi piacciono entrambi. Io sono un progettista dello spazio, che su diverse scale ama capire come sentiamo ciò che ci circonda, come abitiamo. Gli oggetti influenzano lo spazio notevolmente con la loro presenza. è quindi impossibile per me non tenerne conto e non subirne il fascino.
di Costanza Rinaldi