Per i Formafantasma, duo di designer fra i più visionari del momento, il design non serve solo a “produrre cose”: è invece lo strumento per trovare soluzioni ai problemi urgenti dell’uomo, dai rifiuti ai flussi migratori.
L’avventura di Andrea Trimarchi e Simone Farresin – i Formafantasma – parte dalla Sicilia e dal Veneto, passa attraverso l’Istituto di Design Isia di Firenze e (per ora) termina ad Amsterdam, dove i due designer hanno aperto uno studio. Li abbiamo incontrati a Milano, per ripercorrere insieme la loro parabola creativa e allungare lo sguardo sul futuro.
Paola Antonelli con Broken Nature, titolo della sua XXII Triennale di Milano, riflette sul nesso fra uomo e natura: un legame che si è spezzato e che deve essere ricomposto riportando il design al centro della riflessione sul mondo di domani. Secondo voi, che ruolo avrà il designer nel prossimo futuro?
Paola si sta giustamente interrogando su come il design possa intervenire nel rendere la produzione – sia fisica che digitale – il più responsabile possibile. Oggi, in realtà, non ci sarebbe alcuna necessità di creare altri oggetti, e forse sarebbe meglio smettere. D’altra parte, però, progettare significa pur sempre costruire nuovi modi di vivere o di interpretare l’esistente. Probabilmente quello di cui abbiamo più bisogno, adesso e in futuro, è di lavorare da un lato per trovare soluzioni pragmatiche a problemi urgenti (inquinamento, flussi migratori, produzione insostenibile…) e dall’altro, per sviluppare concept che ci aiutino a superare gli errori del passato e a ricucire l’ambiente che ci circonda. Dobbiamo re-inventare una diversa idea di progresso, che non sarà necessariamente lineare.
L’epoca in cui viviamo sembra suggerire al design un cambio netto d’andatura: le espressioni progettuali oggi devono essere caratterizzate da un vivo interesse per l’uomo, attente all’ambiente e capaci di sposare l’etica con l’estetica. La vostra visione è anticipatoria rispetto a questi temi?
Non ci interessa capire se è anticipatoria, e probabilmente non lo è. Enzo Mari non ha mai visto nessuna divisione tra etica ed estetica: lui più di tutti ha cercato di produrre pensiero critico ed etico. Morirà urlando contro il mondo e invocando un cambiamento radicale, e lo ameremo per sempre per questo. Dal canto nostro, non ci siamo mai interessati agli oggetti in quanto tali ma per quello che significano, e per la loro capacità di porsi come elementi di raccordo fra economia, politica e cultura.
Qualche esempio?
Quando ci siamo laureati alla Design Academy di Eindhoven, nel 2009, abbiamo presentato un lavoro – Moulding Tradition – che collega la conquista medievale afro-araba del Mediterraneo e l’espansione della produzione ceramica con i flussi migratori e dei rifugiati politici contemporanei. Il punto di partenza era un artefatto popolare siciliano: le teste di moro. Nel 2009 a Milano abbiamo presentato Autarchy’ pane e scope in saggina: nel bel mezzo della crisi economica ci sembrava la cosa migliore da fare. E poi ci sono stati Botanica, una collezione di vasi, ciotole e piatti prodotti con farina, rifiuti organici e calcare e più di recente Ore Streams, che si pone domande sulla produzione elettronica contemporanea.
Ore Streams, l’ultimo progetto presentato alla NGV Triennial di Melbourne, è una presa di coscienza sul concetto di spreco, un’indagine ambiziosa sul riciclaggio di rifiuti elettronici, sempre più numerosi e preziosi. Come nasce questa idea?
È un progetto molto complesso sul quale stiamo ancora lavorando. Per due anni abbiamo indagato sul sistema di smaltimento della produzione di dispositivi informatici e telefonici e abbiamo presentato al museo una video-installazione che includeva una serie di interviste a diversi professionisti. Da questa corposa documentazione è nata un’animazione di sintesi in 3D che ipotizza delle strategie semplici per facilitare il riciclo di questi prodotti: stiamo organizzando un ciclo di conferenze che metta attorno a uno stesso tavolo produttori, aziende del riciclo e designer. Nei prossimi anni lo presenteremo anche in Europa.
E questo lavoro ha anche una declinazione ‘concreta’?
Abbiamo disegnato una serie di pezzi che esplorano le medesime tematiche, ma a livello più concettuale. La scelta è stata quella di lavorare su dei mobili all’apparenza ‘normali’ che, verniciati con colori tenui e cangianti, inglobino carcasse e residui elettronici placcati con l’oro puro ottenuto dal riciclo di schede elettroniche. Gli oggetti sono anche stampati con immagini di Marte rilasciate dalla Nasa: evocano le origini aliene di molti dei metalli terrestri che sono arrivati qui durante una tempesta di meteoriti miliardi di anni fa, ma vogliono anche spostare la discussione da un piano pragmatico a uno più complesso, quasi cosmologico.
Le aziende sono pronte a esplorare nuovi linguaggi?
Sì, sono aperte nei confronti dei nuovi linguaggi visivi, a patto che si vendano. Quanto al fatto di esplorare nuove idee, non ne siamo del tutto sicuri. Tuttavia, bisogna fare delle precisazioni. In Italia quando si parla di design s’intende quello del mobile (come se non esistesse altro), e come industria quella del mobile non è la più fiorente e neppure quella più innovativa, se si pensa per esempio alla difficoltà con cui si sta avviando il commercio on line. Le aziende rispondono a logiche di mercato complesse e spietate, che spesso le sovrastano. Però ci sono le eccezioni: come Flos, che ha un catalogo storico impeccabile e uno contemporaneo altrettanto buono. O progettisti come Hella Jongerius, che per Vitra ha fatto e fa molto.
Per quale mondo sono pensati i vostri progetti?
Si progetta guardando alla società in cui viviamo ma, nei casi migliori, concludiamo disegnando per una società che ancora non esiste.
Insegnate nei dipartimenti di Benessere e di Progettazione contestuale della Design Academy di Eindhoven e siete i responsabili dello studio di design al MADE Program a Siracusa. Qual è il plus di queste esperienze?
Insegnare è bello e frustrante allo stesso tempo: è un qualcosa che ha a che fare con l’essere generosi senza aspettarsi nulla indietro. Più che insegnare, pensiamo a come strutturare l’educazione: alla fine è un progetto di design anche questo! Ci piacerebbe organizzare un corso di design radicale che sappia muoversi tra attivismo e produzione. Disegnare cose non basta più: dobbiamo cambiare il modo di produrre gli oggetti e le politiche economiche e sociali su cui questo metodo si basa.
Al Salone del Mobile quest’anno presentate una collezione per Bitossi… Come è nata questa collaborazione?
L’azienda ogni anno riedita dei pezzi dell’archivio. E questa volta siamo stati noi a selezionarli. Abbiamo scelto due opere di Aldo Londi, che sono anche l’ispirazione per Clay, il nostro progetto. Si tratta di oggetti che non hanno una funzione precisa: in pratica, sono degli esperimenti che Aldo faceva tagliando in modo quasi casuale dei blocchi di terra. Le mattonelle così ottenute venivano poi cotte senza ulteriore modifica o rifinitura, e in questa occasione le presenteremo nel colore originale e in lilla chiaro. Partendo da questi lavori, a nostra volta abbiamo esplorato le qualità espressive e materiche della ceramica, dando vita ad alcune ulteriori ‘considerazioni’. Per esempio, il classico vaso tornito è stato mutilato nella parte superiore, e l’azione brutale dello strappo è servita per mettere in risalto i bordi materici e l’estetica organica dell’argilla. Le ciotole sono state invece prodotte spingendo violentemente un pezzo di argilla con una pressa industriale, generando così imprevedibili incrinature e imperfezioni sui bordi. Oltre alle finiture lucide tradizionali, poi, sono stati aggiunti per questi prodotti tre nuovi glaze opachi con una tattilità simile alla gomma, che evoca finiture industriali. Più che progettare i pezzi, insomma, eravamo alla ricerca di sistemi produttivi intuitivi che potessero lasciare il materiale libero di esprimersi, di parlare. Di far sentire la sua voce.
di Monica Montemartini