Prima è successo nella moda, poi nel design: l’advertising oggi punta tutto sulla capacità di accendere i sogni. Utilizzando le tecniche dello storytelling visuale di cui è maestro assoluto il fotografo Giovanni Gastel
Carismatico ed elegante, ironico e visionario. Un gentiluomo d’altri tempi e un insaziabile globetrotter con in tasca un biglietto per il futuro. Giovanni Gastel, uno dei maestri della fotografia contemporanea, è un artista globale: il primo ad aver immortalato l’anima (e non solo la forza commerciale) dei protagonisti delle immagini. Presidente onorario dell’Associazione Fotografi Italiani Professionisti e membro permanente del Museo Polaroid di Chicago, Gastel collabora da sempre con le principali riviste di moda ed è uno dei più attenti protagonisti della comunicazione pubblicitaria d’avanguardia. Lo abbiamo incontrato a Milano, nello studio in via Tortona, per chiacchierare di design, di arte e di seduzione. E per capire quanta ricerca di se stessi ci sia dietro un singolo scatto fotografico.
“La pubblicità è l’anima del commercio”, diceva Henry Ford. Nell’advertising contemporaneo, anche quello che riguarda il design, lo sguardo d’artista può davvero fare la differenza?
Mi sembra che il mondo del design stia uscendo dalle logiche della comunicazione convenzionale e inizi a chiedere a dei creativi provenienti da altri mondi – come quello della moda o dell’arte – di applicare nuovi codici di rappresentazione del prodotto. Siamo nell’era della contaminazione estrema, sono caduti gli steccati, stanno scomparendo le etichette: non ha più molto senso parlare di fotografia specializzata.
Questo significa che la foto di design si sta trasformando da immagine “da catalogo” a storytelling con contenuti concettuali ed emozionali?
Flavio Lucchini, artista, art director e indiscusso maestro nel campo dell’editoria di moda, diceva che il protagonista delle fotografie deve essere il prodotto, e questo vale per l’oggetto fashion, l’abito o l’accessorio, come per l’oggetto di design. È una visione che rispetto ma – come fotografo – voglio potermi muovere con libertà, desidero costruire la mia storia, ho bisogno di distillare dentro le immagini la mia interpretazione, che di fatto può risultare distonica rispetto alla visione dominante. Eppure mi chiamano perché, quando lavoro, metto in gioco una mia personale lettura della realtà. Ecco: credo che la distonia di visione oggi non sia più un difetto, ma un plus.
Un tempo i committenti erano gli industriali, i proprietari delle aziende, portatori di cultura e di valori che oggi sono in mano ai fondi di investimento. Questo cambio d’orizzonte ha modificato anche l’approccio all’advertising?
I nuovi investitori si fidano della gestione di chi li ha preceduti e per ora non hanno condizionato la comunicazione più di tanto. Di recente ho fatto una videoistallazione per la mostra-evento di Kartell e un filmato per Artemide dove ho interpretato la flessibilità della nuova incredibile lampada “La Linea” disegnata dallo studio Big con due bambini che giocano. Questo tipo di sguardo, pur essendo molto distante dalla comunicazione istituzionale, riesce a produrre immagini di impronta poetica ed emozionale. E questo, secondo me, è un bel passo avanti.
Quali sono le nuove strategie di comunicazione?
Fino a qualche anno fa, la parte creativa delle campagne era tutta contenuta nell’oggetto e le immagini si limitavano a mostrarla. Oggi invece bisogna saper creare scenari lontani dalla realtà, mondi paralleli che facciano sognare. Ho sempre lavorato in questa direzione. Penso di nuovo a Kartell e alla libreria a nastro di Ron Arad, che dieci anni fa ho interpretato associandola al mito della Chioma di Berenice: nell’immagine c’era una donna vestita di rosso e dai suoi lunghi capelli partiva la libreria. Se una volta un approccio del genere poteva sembrare azzardato, adesso questa lettura risulta vincente.
La tecnologia ha determinato una radicale trasformazione dei mezzi e dei tempi di comunicazione. La società odierna è veloce, tutto è “consumabile”. Che cosa ne pensa?
La fotografia non è mai stata così viva come oggi: ci sono 3 miliardi e mezzo di foto postate al giorno. La fotografia è diventata una lingua, una lingua democratica, che si usa per comunicare. Noi professionisti, invece, la usiamo per entrare nel profondo, per creare icone. Il nostro compito non è quello di clonare il reale: noi creiamo dei mondi paralleli, lasciando a chi osserva la libertà di sovrapporre alla nostra narrazione la propria emotività.
In quale misura lei porta la sua storia personale nelle sue immagini?
Io sono una cosa sola, e credo che sia proprio quest’onestà intellettuale che distingue chi fa il fotografo da chi invece è fotografo. Dico sempre la verità, racconto tutto di me, racconto la mia malinconia, la mia solitudine, la mia gioia. La gente si accorge se vede un’immagine falsa, in cui fingi di essere un cowboy ma di fatto sei un indiano…
Un divano, una lampada, un abito, un gioiello… C’è un’idea trasversale che va oltre l’oggetto?
La seduzione. La fotografia è sempre un atto di seduzione.
Ci sono segni, linee e colori che fanno immediatamente pensare a un’azienda. Com’è possibile farne una sintesi?
Quando vado in un’azienda, l’approccio è lo stesso di bambino che entra in un negozio di giocattoli e vedo se mi risuona qualche cosa, come un gong: può essere una forma, un dettaglio, un ritaglio di tessuto… Sono questi “segni” che mi danno la chiave di lettura. Poi ho bisogno di molte informazioni sull’azienda e sul prodotto e, quando le ho acquisite, le elaboro e le restituisco attraverso le immagini, sempre secondo la mia visione personale.
Parliamo di due suoi lavori recenti per il mondo del design: Artemide con GenerAction dà voce ai centennials, Living Divani nella rarefazione di un magazzino industriale celebra un design dalle linee assolute. Come sono nate queste campagne?
Carlotta De Bevilacqua è una donna e un’imprenditrice proiettata nel futuro. Per questo con Luca Stoppini, con il quale ho lavorato per la nuova campagna di Artemide, abbiamo scelto di abbinare le loro lampade a un gruppo di ragazzi, tutti under 18, che stanno cambiando il mondo. Sono dieci piccoli geni che l’azienda della Human Light ha deciso di sostenere sia negli studi che nei progetti di ricerca. I protagonisti principali della campagna sono Rayouf Alhumedi, 17 anni (Arabia Saudita), Valerio Paglierino, 18 anni (Italia) ed Elliot Surrey (Francia). Quanto invece a Living Divani, i prodotti che Piero Lissoni progetta per loro sono icone atemporali. Ecco perché li ho calati in un’atmosfera rarefatta, come se fossero sospesi in una nuvola o nella scia di un’astronave che li astrae dalla realtà. Rendendoli, di fatto, eterni.
Che cosa c’è in cantiere per i prossimi mesi?
“The Body”, un nuovo libro sul mio lavoro, realizzato da Prearo Editore, che è una vera opera d’arte; poi molte campagne moda e una grande mostra sul tema del ritratto che inaugurerà nel 2020 al Maxxxi a Roma. Sto anche lavorando a un film su Beppe Modenese, il signore della moda italiana. Lo giro e lo produco io, sarà il mio regalo per Beppe.
Esiste una forma d’arte dalla quale si fa influenzare in maniera più diretta quando inizia un nuovo progetto?
Leonardo da Vinci diceva che il grande errore dell’uomo sarebbe stato quello di dividere le arti, dividere la medicina dalla filosofia, la filosofia dalla poesia, e noi purtroppo lo abbiamo fatto. Leonardo ammoniva di non farlo mai, “perché sarà un disastro”. Perché l’uomo è uno, l’universo è uno, e io credo nell’idea dei vasi comunicanti: tutto quello che vedi, che sai, che accumuli durante la tua vita, alla fine ritorna e si condensa nell’atto creativo, qualunque esso sia. Ecco perché assorbo da tutto, sono molto interessato a tutto, non mi pongo limiti di nessun genere.
È un approccio estremamente libero. E molto contemporaneo…
C’è una frase, che cito spesso, che ho trovato in una poesia di Giuseppe Ungaretti. Nell’Approdo, a un certo punto lui scrive: “Giunse a un bosco ove l’ombra s’addensava negli occhi delle vergini come sera a piè degli ulivi”. Una luce zenitale di questo tipo, che dava un’ombra, una luce meravigliosa, l’ho cercata, l’ho trovata, l’ho ricreata. Penso che le prime dieci cose che ti vengono in mente non devi farle: devi lasciarle lì. Più vai a fondo e più devi avere conoscenza: devi aspettare e devi accumulare, anche disordinatamente. Questo è il sale della ricerca e del miglioramento costante. Il sapere, il conoscere, il comparare spostano il momento in cui una tua opera ti piace sul serio sempre più lontano. E questo è un bene.