“Non si fa progetto se non si allarga lo sguardo su mondi diversi”. Parola di Ferruccio Laviani, direttore artistico di Kartell, il più eclettico tra gli architetti che hanno scritto (e stanno tuttora scrivendo) la storia del Made in Italy, ma anche uno dei più aperti al confronto trasversale su ricerca e prodotto. Per il Salone, il designer lombardo cresciuto alla scuola di Achille Castiglioni e Marco Zanuso, e già socio negli anni Ottanta di Michele De Lucchi, come sempre non si risparmia. E per l’edizione 2022 firma lampade, tavoli, divani, tappeti, wallpaper, ceramiche, oltre ad allestimenti e stand in cui, come a teatro, vanno in scena valori e storie delle aziende: le fabbriche “dove nascono i sogni che si possono ancora toccare”.
Kartell, Foscarini, LEA Ceramiche, Gervasoni, Very Wood, O Luce, Yo2, Frag, Londonart, Not.O, Frigerio, Doppia Firma… Il catalogo delle novità di Ferruccio Laviani per la Design Week (ma non solo) è ricchissimo. C’è un prodotto preferito?
Con i progetti mi sento un po’ come le mamme, che non possono mai dire apertamente di avere un figlio prediletto, anche se magari ce l’hanno. In realtà, sono un istintivo e, se un’idea mi piace, la seguo e la sviluppo. Non mi interessa restare fedele a uno stile, a un tema o a un filo conduttore e, in effetti, i miei lavori – se li si considera nel loro insieme e attraverso gli anni – sono tutti piuttosto diversi l’uno dall’altro. Sono convinto che la capacità di mettersi in discussione e di imparare da diversi interlocutori sia il segreto per continuare a crescere e a evolvere come persona e come progettista. A tutte le età.
Come si è trasformato il mestiere del designer?
La cultura della specializzazione estrema ha preso piede negli anni Novanta e, con l’avvento massiccio del digitale, è stato necessario affinare un background di conoscenze tecniche ancora più specifiche. Non è più possibile tenersi al di fuori di questo mondo, ma l’eccesso di saperi tecnologici alla lunga spegne la creatività. Ognuno sviluppa le proprie competenze di settore, ma poi non bisogna muoversi a compartimenti stagni: il nostro è un mestiere che si nutre un po’ di tutto. Sono di Cremona e mi sono formato alla scuola di liuteria, all’interno della quale c’era la sezione dedicata al disegno di mobili e dove ho appreso le basi di un lavoro che sarebbe diventato il mio futuro. Già quando ero ragazzo, ero affascinato da riviste come Ottagono e Abitare, dove scoprivo cose meravigliose, e poi c’erano e ci sono tuttora libri, mostre, viaggi, esplorazioni… Per chi si occupa di design, pensare in grande – e cioè senza porsi confini ideologici – consente di mutare scenari e di favorire incontri che aprono nuove prospettive, come in un gioco di sliding doors.
È un consiglio per le nuove generazioni?
Anche per motivi anagrafici arrivo da una formazione a cavallo fra l’analogico e il digitale, ho cercato di studiare e di lavorare in entrambi i modi, e credo che il fatto stesso di potersi muovere sul crinale fra due realtà abbia non pochi vantaggi. Quando ho iniziato, quello dell’architetto era un mestiere che s’imparava tassativamente partendo dal disegno a mano, sul tecnigrafo, e passava attraverso gli studi di fattibilità, i prototipi, la conoscenza dei processi industriali. Una certa cultura dell’immagine oggi dominante, soprattutto quella legata al mondo dei social e condizionata dall’ossessione dei like, ha invece appiattito e omologato anche la formazione, spostando le nuove leve su orizzonti immateriali, contesti dove sembra che tutto sia possibile e a portata di click. Il rischio che corre la nostra professione è che il futuro venga colonizzato da designer, imprenditori e brand che si comportano con uno stile da influencer. Negli studi ci si trova davanti a ragazzi tecnicamente ineccepibili ma spesso impreparati a misurarsi con i materiali, ad andare nelle aziende. È una situazione paradossale, un po’ come se un medico non avesse mai visto una sala di anatomia. E non si può imputare tutto alle presunte carenze della scuola, perché il nostro è ancora un lavoro di ricerca, di pratica e di sostanza. E se qualcuno ha l’impressione di non aver costruito delle buone basi, con i maestri giusti, gli strumenti che si hanno a disposizione e soprattutto con la passione, il background se lo può costruire anche da solo.
Con un approccio vagamente rinascimentale, antico e al tempo stesso modernissimo e tipico del creativo multitasking, Lei ha lavorato per molti brand – non solo nell’ambito del design – e racconta anche le aziende attraverso gli stand, gli allestimenti e i negozi. Come nasce quest’attività parallela a quella progettuale di prodotto?
Durante i primi anni Ottanta vivevo a Londra e mi sono ritrovato immerso in un mondo onirico fatto di moda, di musica e soprattutto di shop eccezionali, visionari. Sono stato anche un frequentatore assiduo degli stand della Fiera campionaria di Milano, che è stata un potente incubatore di spunti ma anche un assaggio di quello che sarebbe stato di lì a poco l’avvento della globalizzazione. La spinta definitiva, però, me l’ha data il lavoro in squadra nell’atelier di Michele De Lucchi, dove si faceva di tutto: un’ottima palestra è stata per esempio il progetto per RB Rossana, di cui, oltre al prodotto, si curavano anche cataloghi, testi, foto, stand. Per Kartell sono arrivato al trentaduesimo allestimento per il Salone, e poi, fuori dall’ambito del design in senso stretto, ricordo il lavoro per i negozi di Dolce & Gabbana: lì si è trattato di creare un mood, che poi è stato traslato anche in altri ambiti – eventi, uffici – diversi dai punti vendita.
Nell’era delle vetrine virtuali, quali sono le regole per costruire un allestimento ‘fisico’, reale ed efficace?
Raccontare una collezione significa riuscire a lasciare a chi entra in uno spazio espositivo, anche temporaneo, o in un negozio, la memoria dello stile dell’azienda e l’aura dei suoi prodotti. Mi fa piacere quando, anche a distanza di anni, il visitatore si ricorda ancora del giardino all’italiana che venne allestito per presentare la linea outdoor di Kartell o dei manichini-cameriera di Flos. Adesso mi pare che la gente abbia meno coraggio: naviga tanto e sogna poco. Facebook e Instagram hanno uniformato le visioni, ed è una perdita culturale immensa. Non solo: il politically correct filtrato dalla Rete ha effetti devastanti perché frammenta la realtà, creando un’estetica dei timbri che è bigotta e ammazza la libertà di pensiero. L’autoironia è molto meglio che rinnegare la propria identità per assecondare il gusto estetico dominante.
Ferruccio Laviani e il Metaverso: sì, no, forse?
Il Metaverso ormai esiste e ci si dovrà misurare anche con quel mondo, ma l’interferenza del digitale non può diventare più importante della realtà. Va bene l’universo parallelo, ma poi ci vogliono pur sempre i prodotti veri, reali, che si toccano. Penso che in questa fase storica serva a tutti noi un esame di coscienza, che ci riporti coi piedi per terra. Avevo 12 anni nel periodo dell’Austerity, era il 1973, la gente non usava le auto nei giorni festivi: ci siamo adattati e, se sarà necessario, ci adatteremo ancora. Noi italiani siamo menefreghisti, incoerenti e abbiamo poca memoria, ma forse è anche questa nostra capacità di dimenticare in fretta il passato e di guardare sempre avanti che in molti frangenti ci salva. Lo dimostra anche il fatto che in questo momento di guerra, con un virus ancora in circolazione, con il rialzo dei prezzi delle materie prime che sta mettendo alla prova tutti, nelle aziende e negli studi stia comunque circolando un’energia straordinaria. Questa è l’Italia.
Per Foscarini ha disegnato Tonda, una sospensione in vetro a metà tra il design radicale dei primi anni Settanta e il Good Design, e per Kartell ha appena rivisitato in plastica di riciclo la sua Take, l’icona classica dell’abat-jour da comodino composta da due lastre piatte che da bidimensionali al centro assumono la forma e il volume di una ‘semi-lampada’. Qual è il peso della sostenibilità nei suoi progetti?
Sulla sostenibilità del vetro siamo tutti d’accordo. Quanto alla plastica, all’inizio degli anni Settanta Kartell fece circolare una pubblicità il cui claim era: ‘Abbiamo deciso di fare i mobili in plastica per tagliare meno alberi’. Lo dico per sottolineare che oggi abbiamo il brutto vizio di non collocare più gli eventi e i prodotti nel loro periodo storico. L’evoluzione della plastica è diversa dall’evoluzione delle coscienze, e continua a mutare. Un mobile in plastica di qualità non è un contenitore in Pet: è un oggetto durevole, ed è proprio grazie alla sua capacità di sfidare il tempo e di poter essere facilmente smaltito che diventa sostenibile. Quindi: una bottiglia di plastica non la butti in un fosso e una sedia Kartell la devi smaltire come si deve. La questione da risolvere sta a monte ed è culturale, prima ancora che ecologica.
Nel tempo, però, sono arrivate le ecoplastiche e le bioplastiche…
… Che dal punto di vista strutturale possono a volte creare delle criticità, che vanno affrontate e superate. Sono materiali d’avanguardia che le aziende studiano, testano, perfezionato secondo le proprie necessità e hanno già largamente implementato nei loro cataloghi. È dal 1992 che in Kartell si lavora con la plastica riciclata, che però dev’essere purificata dalla presenza di altri materiali che ne potrebbero compromettere la tenuta, soprattutto nei mobili sottoposti a continue sollecitazioni.
E poi ci sono i materiali naturali…
Con Not.O, che sta per Not Ordinary, un marchio nato dall’incontro con Felice Rizzotti per rivalutare l’artigianato made in Sicily innestandolo in una filiera di prodotto industriale, per il Salone presentiamo due tavoli. Lavorando con il legno e la pietra vulcanica, mi sono ispirato alle linee della piscina dello stadio di Taormina, un gioiello progettato da Pier Luigi Nervi nella seconda metà degli anni Cinquanta. Con questa operazione, ho volutamente cercato di tenermi lontano dalla decorazione barocca tipica dell’iconografia siciliana per esplorare altri contesti, che appartengono comunque al Dna dell’isola. Se si guarda il mondo senza paraocchi, in qualunque epoca e a qualsivoglia latitudine, le ispirazioni si trovano. Per questo ringrazio una volta di più Achille Castiglioni, che agli studenti ripeteva spesso: “Se non siete curiosi, lasciate perdere. Se non vi interessano gli altri, ciò che fanno e come agiscono, allora quello del designer non è un mestiere per voi”.