Architetto attento ai valori della rigenerazione urbana e dell’efficienza energetica in edilizia, Alfonso Femia è fondatore e presidente di Atelier(s) Alfonsio Femia – AF517, studio con basi a Milano, Genova e Parigi. Il tema del territorio in relazione all’uomo, una urbanizzazione che sia sostenibile e la conseguente responsabilità dell’architettura, definiscono pensiero e lavoro di Femia, il cui approccio progettuale si fonda sul concetto di innovazione come diverso modo di concepire gli spazi urbani, di valorizzare i luoghi per la condivisione e di capire che tipo di relazioni umane il progetto può creare, ma soprattutto, di pensare al contesto prima che all’edificio da realizzare.
Dalla ricerca SWG per Confindustria Assoimmobiliare è emerso come i cittadini desiderino città riqualificate, sostenibili, digitalizzate e un ritorno alla centralità dei quartieri (con i servizi utili entro 15 minuti da casa). Dal suo punto di vista di architetto come auspica sia la città del futuro e il rapporto tra realtà urbana e benessere individuale?
La sostenibilità va messa in atto con piccoli interventi distribuiti capillarmente sul territorio. È quanto accade da dieci anni a questa parte con la riqualificazione delle periferie e l’integrazione in questi contesti di ampi spazi verdi condivisi, aperti ai cittadini. Tutti i quartieri andrebbero ripensati con i parchi al centro.
La sostenibilità, poi, deve essere il frutto di un generale cambiamento di mentalità, che veda, in primis, la valorizzazione della tecnologia in funzione ambientale: basti pensare a quanto, oggi, anche gli italiani si stiano sganciando dalla necessità di possesso dell’auto per andare verso una mobilità sostenibile, in sharing, elettrica. La mobilità si porta dietro altri tipi di cambiamento e a promuoverli ci pensano le nuove generazione. Lo stesso smartworking ci permette di ridurre gli spostamenti e le conseguenti emissioni inquinanti. Bisogna uscire dal concetto che vede le grandi metropoli come unico luogo in cui accade tutto, in cui tutto va concentrato.
Ci sarà un ritorno a contesti più piccoli, dai quartieri ai comuni al di fuori delle grandi metropoli? Lei parla degli spazi ‘tra’ città che definisce ‘luoghi invisibili’…
La città è un grande corpo in relazione con il nostro corpo. Specie quello italiano è un territorio fatto non solo da grandi città, ma da ‘mille comuni’, un paesaggio che ogni 10 chilometri cambia identità e appartenenza. La città è sicuramente un punto nodale, ma la vera forza sta tra le città (dove operano anche le imprese), in quegli spazi di cui ci siamo dimenticati, diventati invisibili. La sostenibilità si raggiunge riportando equilibrio tra queste aree, ma serve un’azione collettiva. Servono azioni fondative, ad esempio ripartendo dalla scuola.
Scuole da riqualificare ma anche da trasformare in collanti sociali…
Sì, la scuola deve mantenere la sua forte vocazione pubblica, farsi collante per il quartiere. L’obiettivo è creare un ecosistema composto da spazi di relazione: tra scuola e quartiere, tra studenti e luoghi limitrofi. Le scuole diventerebbero, così, una sorta di mappa dei punti da connettere con la mobilità dolce. A interventi come questo dovrebbe essere destinata parte del Recovery Fund. I paradigmi a livello europeo, relativi alle ricostruzioni e ai nuovi interventi, dovrebbero basarsi su due termini, per me fondamentali quando si parla di progettualità, ‘responsabilità’ e ‘generosità’.
Cosa intende con ‘responsabilità’ e ‘generosità’ progettuale?
La città oggi non è democratica, ce ne siamo accorti durante il lockdown che ha evidenziato le differenze sociali. Ripensare il tema dell’abitare e delle scuole (che investe 10 milioni di persone e 40mila edifici). La pandemia, infatti, sta fungendo da acceleratore per il raggiungimento di una dimensione sostenibile.
Con ‘generosità’ intendo un ritorno agli spazi collettivi sia condominiali che di quartiere, un ritorno dei cortili ad esempio. Tutto ciò che è stato ‘asciugato’ progettualmente per dare più spazio alla proprietà privata delle classi più abbienti a seguito di una trasformazione nella cultura immobiliare che ha importato un approccio anglosassone che non ci appartiene. La ‘responsabilità’ è quella che la politica e l’architettura devono prendere in carico per concretizzare queste idee.
Una maggiore digitalizzazione è considerata un elemento necessario a definire la qualità di vita delle persone. Oggi si parla di Smart City e di domotica, quindi di interconnessione in casa ma anche a livello urbano. Come va gestito questo processo secondo lei?
La tecnologia ha un’enorme importanza soprattutto per la sua funzione democratica. La digitalizzazione, durante il primo lockdown, ha evidenziato le differenze sociali e la necessità di estendere e rendere disponibili a tutti gli stessi supporti tecnologici e le stesse connessioni. ‘Smart city’ è, invece, uno slogan che indica una città che non c’è. La città è fatta di cittadini, quindi le caratteristiche della città riflettono quelle dei suoi abitanti. Bisogna agire sulle persone con un’azione culturale, formativa. L’impostazione digitale è la prima azione responsabile da mettere in atto progettando le città del domani perché intanto elimina le disparità sociali. Abbiamo scoperto che il digitale, la connessione di tutte le infrastrutture, elimina le distanze e permette di svolgere da remoto tante attività in un modo che prima non credevamo possibile e per capirlo ci è servita un’emergenza mondiale. Oggi c’è un sentire diverso: si comincia a capire che si possono valorizzare tutti i territori, che non è più necessario lo spostamento tra regioni per esigenze lavorative. La politica deve lavorare su ‘infrastruttura’ e ‘massa critica’ per cambiare le cose. Il concetto di ‘smart city’ andrebbe sostituito con quello di ‘principio comunitario’: un pensiero progettuale che torni a dialogare e a raccontare il contesto. Il contesto deve essere il nostro punto di partenza.
Cosa ne pensa di una maggiore sinergia tra enti pubblici e aziende private nei progetti di rigenerazione?
E’ fondamentale promuovere la sinergia tra pubblico e privato. Il pubblico non ha il potere economico necessario per investire in tutti gli interventi necessari e il modello di parternariato tra enti e aziende si è rivelato vincente anche all’estero, come già da tempo avviene in Francia per esempio. Il pubblico deve svolgere il ruolo di regia, dettare le condizioni, deve però essere saldo nel suo ruolo di leader strategico e politico altrimenti si rischia che, nel tempo, le parti si invertano. Anche nella scuola è ragionevole investire in forma mista pubblico-privato, bisogna cominciare a capire che la scuola può svolgere una funzione non solo formativa ma anche di coesione territoriale. Una scuola aperta tutto il giorno per offrire diverse tipologie di servizi.
Quale svolta dovrebbe affrontare il progettista per assumersi questa responsabilità di cambiamento?
Ognuno di noi, in ogni progetto, dovrebbe sempre privilegiare la funzione collettiva, mettere nel progetto la filiera del fare. Non bisogna seguire pedissequamente il progetto del committente ma sconfinare dando una propria visione. L’architetto ha il dovere di promuovere il ragionamento sul contesto.
Quale può essere il ruolo di Milano in questa visione?
Milano ha le potenzialità per diventare un luogo di riferimento: ha un rapporto forte con il territorio e centri formativi di eccellenza, potrebbe davvero diventare un laboratorio permanente.