Designer e creativo, Fabio Novembre interpreta il presente con verve visionaria: maestro di una narrazione ironica e pop che spazia da Cappellini a Kartell per approdare oggi da Driade e alla Domus Academy
Quando dice «il design è la mia vita», lo sguardo di Fabio Novembre s’illumina e negli occhi gli si accende un lampo di energia pura. Seduto alla scrivania ingombra di carte, modellini e oggetti portafortuna nel grande loft senza barriere – una coloratissima factory che ospita la sua abitazione e il suo atelier in zona XXII Marzo a Milano – inizia a raccontare con entusiasmo degli ultimi progetti. Ulteriori tasselli di un’avventura creativa di calibro internazionale, contraddistinta da un segno potente e provocatorio che lo ha consacrato nel gotha delle grandi firme del Made in Italy. E che da ultimo, come ci racconta, lo ha portato alla direzione artistica di Driade.
Partiamo proprio da qui, da Driade, che è stata fondata nel 1968 da Enrico Astori con la sorella Antonia e la moglie Adelaide Acerbi. È un’azienda che nasce con l’obiettivo di essere un laboratorio estetico alla continua ricerca della bellezza nell’abitare. Esserne diventato il direttore artistico è un onore ma anche una sfida. Cosa ne pensi?
La parola sfida oggi è un po’ abusata, almeno dal mio punto di vista. Voglio dire: non sfiderei mai quello che ha fatto Enrico Astori, che è una persona che adoro e che ha svolto un lavoro meraviglioso: ciò che conta, adesso, è la continuità. È importantissimo che ciascuno di noi diventi testimone del suo tempo e lasci il segno di quello che sta vivendo. È inutile rifarsi al passato o proiettarsi nel futuro: per me vale sempre il presente, una parola che etimologicamente vuol dire anche “regalo”, un dono che ci viene fatto e che dobbiamo saper apprezzare e interpretare.
Cosa cambierà – o è già cambiato – con il tuo arrivo?
Quando sul ponte viene a mancare il comandante, la nave in genere perde la sua rotta, ma noi quella di Driade la conosciamo bene, e cioè che bisogna continuare a essere un laboratorio estetico, ma senza mai dimenticare la dinamica che c’era a monte di ogni progetto: Enrico si alzava nel cielo come un aquilone e faceva tutte le piroette possibili, ma a terra c’erano sempre Antonia e Adelaide a dare radici e concretezza. Ecco, all’interno di Driade non vorrei perdere questo tipo di interazione di forze.
Quali sono per te i valori irrinunciabili?
La parola “valori” mi risulta un po’ scivolosa. Non siamo dei cardiochirurghi che operano a cuore aperto: ci occupiamo di estetica. E io sono ancora fra coloro che pensano, un po’ come insegnavano gli antichi Greci, che l’estetica sia la gemella dell’etica e il bello che riesce a essere anche buono è il fine ultimo di ogni sforzo progettuale. Questo forse è già un valore. Poi però c’è un altro fattore: Enrico era la quintessenza del glamour, amava la vita e l’eleganza. Sono valori. E se ne sente la mancanza.
La storia di Driade si intreccia con la storia del design internazionale. Prevedi nuove collaborazioni con progettisti stranieri?
Sì. Arriveranno un grande architetto danese e un grande architetto messicano
Per Driade hai disegnato prodotti iconici come la testa-poltrona Nemo, i vassoi 100 piazze e la libreria Venus. Come nascono i progetti che poi si trasformano in oggetti di culto?
Nascono da spunti, da pretesti che poi prendono strade inimmaginabili. È il famoso assunto di Edward Lorenz, il celebre meteoreologo del Massachusetts Institute of Technology di Boston (MIT) che nel 1972 diceva: “Come può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?”. Allo stesso modo non puoi prevedere che la scintilla creativa da semplice palla di neve diventi una valanga. Tanti oggetti che pensavo avrebbero fatto storia non hanno avuto un grande successo. Ma poi: il successo, nel design, come lo misuri? I pezzi che vende Nemo sono relativamente pochi, ma forse il fatto che sia stata copiata in Cina è già un metro di successo.
Giuseppe Di Nuccio, ceo di ItalianCreationGroup (il polo del lusso italiano a cui appartengono anche Valcucine, FontanaArte e Toscoquattro, ndr) ha definito Driade il marchio fashion del gruppo. Fra moda e design, quindi, i confini sono sempre più labili?
Giuseppe viene dal mondo della moda e a me, in effetti, piacerebbe coinvolgere dei fashion designer. L’azienda tornerà a essere un laboratorio estetico, forse più che mai. Mi inventerò situazioni al limite dell’assurdo. Ora bisogna immaginare mondi nuovi.
Vince l’espressione di Mies van der Rohe che negli anni 20 dichiarava “Less is more” o quella opposta di Robert Venturi che nel 1966 diceva “More is not less, less is a bore”?
Dico che “less is less” e “more is more”. Sono cresciuto con il barocco leccese negli occhi e per me vedere quell’esagerazione di decorativismo era la normalità. Se fossi nato in un contesto diverso, il mio less sarebbe stato differente. Cito una frase che ripeteva spesso Ettore Sottsass: “I am not againts, I am not for, I am with”, e cioè “Non sono contro, non sono pro, sono con”. Non posso che condividerla.
Il design è un modo di raccontare la realtà e chi la progetta in una sorta di autobiografia. Tu che storie racconti?
Racconto la storia di un ragazzo che non sapeva cosa voleva fare da grande. Sono arrivato a Milano da Lecce e mi sono iscritto ad architettura perché era un corso di laurea a cavallo tra umanistica e scientifica, un giusto equilibrio che apriva un ampio ventaglio di possibilità. Poi ho capito che con lo spazio ci sapevo fare e così ho scelto di lavorare con questo medium comunicativo. Questa la base. Trovato il microfono, cosa avevo da dire? Sono sempre stato innamorato dell’amore. Ho sempre fatto le cose dedicate: ai miei genitori quando ero piccolo, alle fidanzate quando ero grande, alle mie figlie ora che sono adulto. Io materializzo l’amore, gli so dare delle forme. Guarda quel divano a spirale: si chiama And, l’ho disegnato per Cappellini nel 2002. Vivevo in un loft e non ne esisteva uno grande abbastanza per accogliere tutti gli amici. Ho disegnato un modulo in poliuretano replicabile all’infinito: è una congiunzione ma anche una specie di codice genetico, per cui è stato facile trovargli il nome, And, rovesciando la parola Dna.
Oggi sei Direttore Scientifico e Brand Ambassador di Domus Academy, la prima accademia italiana post graduated per il design. Che cosa hai in mente di fare?
Il punto è stato decidere di occuparsi anche dell’insegnamento, tenendo ben presente che a 52 anni tanti ragazzi ti vedano come un punto di riferimento. Sulla Domus Academy ho un’idea molto precisa: eccellenza. Coerentemente con l’identità della scuola, lo sguardo sarà sempre rivolto verso il futuro. Bisogna aprirsi a qualunque mondo, senza cedere a nessun tipo di conservatorismo. E per fortuna sono uno sperimentatore assoluto.
Nei prossimi anni esisteranno ancora gli oggetti nella loro fisicità?
Noi siamo fatti di carne e di sangue e la nostra fisicità ci spingerà sempre a toccare le cose. I sensi non li possiamo negare. Per quanto si possano sperimentare vite parallele e realtà virtuali, alla fine siamo esseri umani e il design e l’architettura sono gli alfieri della tridimensionalità.
Come ti immagini un negozio del futuro?
I negozi si stanno già evolvendo. Potendo acquistare ogni cosa on line, allora ci servono dei luoghi dove capire come sono i prodotti. I nuovi punti vendita saranno degli spazi esperienziali, dove non compri ma tocchi, provi, agisci…
Un tuo sogno al di là del design?
Il design non è il mio sogno: il design è la mia vita e io sono un day dreamer. Il mio tempo è fatto di tanti sogni e per fortuna continuo a realizzarli. L’ambizione ultima è arrivare alla fine con un senso di assoluta tranquillità, il ché vuole dire avere fatto pace con il pianeta, perché la vita è un lungo processo di riconciliazione con sé stessi, prima che con gli altri.