Patrizia Moroso ama la capacità di rinnovarsi del design, sulla scia di sempre nuove suggestioni. così, l’azienda ha avviato una lunga serie di collaborazioni con l’arte. Fino al “laboratorio verde” oggi allestito alla biennale di Venezia.
Quale momento migliore se non durante la 57. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia dal titolo ‘Viva Arte Viva’ per incontrare Patrizia Moroso, art director dell’azienda di famiglia che dal 1952 produce imbottiti e sedute per l’arredo di alta gamma. A Venezia, Moroso ha condiviso con la mente e con il cuore l’idea dell’artista e amico Olafur Eliasson che, nel Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale, presenta “Green Light – An artistic workshop” in collaborazione con Thyssen-Bornemisza Art Contemporary di Vienna (TBA21). Un progetto che nasce come risposta alle problematiche derivanti dalle migrazioni e dagli spostamenti di massa, “un laboratorio verde” non solo di oggetti, ma soprattutto di conoscenza e speranza, visto che un’ottantina di rifugiati, giunti in Italia di recente da diversi Paesi, collaboreranno con il pubblico e gli studenti volontari per la costruzione di una serie di lampade modulari, assemblate sulla base di un disegno dell’artista. La performance artistica veneziana ben riflette la storia di Moroso , in quanto è ‘solo’ l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di progetti per i quali la vulcanica imprenditrice friulana ha coinvolto i designer e gli architetti più visionari, da Ron Arad a Ross Lovegrove, da Patricia Urquiola a Tord Boontje. A cominciare dalla prima esperienza, nel 1986, con Massimo Iosa Ghini, autore della collezione “Dinamic”. Del resto, la manager ha chiaro in mente che “il primo gradino per la costruzione di un marchio solido, ma di grande appeal sperimentale, è la continua ricerca e creatività”. Solidità e creatività, dunque.
SOLIDITÀ CREATIVA
dal punto di vista della solidità, l’obiettivo è stato raggiunto. Doppiata la boa del trentennale, l’azienda di Cavalicco, in provincia di Udine, che ha filiali negli Stati Uniti e Gran Bretagna ed esporta i suoi prodotti in oltre 70 Paesi, ha chiuso il 2016 con un bilancio consolidato di 30 milioni di euro, realizzato per il 20% in Italia e per 80% all’estero, con il 55% di commesse per il contract e il 45% di distribuzione nei punti vendita. Dal punto di vista creativo, c’è un continuo arricchimento individuale: “Oggi come all’inizio della mia avventura – racconta – non seguo un metodo di lavoro: mi lascio trasportare dalla bellezza di ciò che incontro di volta in volta. Mi affascinano i materiali, i tessuti, i legni, le resine, e mi interessa esplorare la superficie di un oggetto perché è quella che, esattamente come accade per la pelle nel corpo, gli conferisce la vera personalità: rappresenta quello che gli occhi vedono, ma anche ciò che le mani toccano”. Su questa predisposizione naturale, ci sono poi gli innesti di creatività esterna, le collaborazioni, appunto. Il design secondo Moroso non è semplicemente “materiale da catalogo”, ma incarna la massima espressione dell’arte di assemblare, mescolare, connettere: cose ma soprattutto persone, come i designer (tanti e diversi) che collaborano con l’azienda. Ecco perché i vari pezzi delle collezioni, anche molto differenti tra loro, oltre a svolgere una funzione pratica, raccontano storie e si presentano divisi per tipologia, come se si trattasse delle tappe di un viaggio: il sistema dei grandi divani e delle poltrone, quello delle sedute, e poi dei prodotti per il contract, per l’ospitalità, per la casa e l’Outdoor.
I COMPAGNI DI VIAGGIO
Nella ricerca dei suoi compagni di viaggio, Moroso ha dimostrato anche un notevole intuito: durante la Biennale di Venezia del 2003, per esempio, ha scoperto David Adjaye, che aveva curato per il padiglione britannico l’architettura dell’installazione di Chris Ofili. “L’ho chiamato – ricorda – ci siamo incontrati a Londra e nel giro di pochi mesi David ha iniziato a lavorare sul progetto dei nostri nuovi uffici. Ai tempi era quasi sconosciuto, ma era già un giovane di grande talento. Da allora, si è portato a casa tutti i premi possibili: nel 2016 è stato inaugurato il National Museum of African American History and Culture, a Washington, e quest’anno il Time lo ha eletto architetto più influente nel mondo”. Un altro caso è quello di Achilleas Souras: “È un ragazzo di 16 anni ma credo che diventerà famoso. Nel nostro showroom di Milano abbiamo realizzato insieme un lavoro sul dramma dei profughi, di cui Achilleas ha dato una lettura molto poetica creando, con i giubbotti di salvataggio, un igloo impermeabile e termico pensato come rifugio e prima accoglienza per uomini, donne e bambini in fuga dai loro Paesi”. Le continue contaminazioni nascono dal fatto che “amo confrontami – spiega – con le persone capaci di fiutare i movimenti e di individuare i trend. È il caso di Patricia Urquiola, amica e consulente fidata: quando ci siamo conosciute, mi ha folgorato con il suo talento e non a caso ormai è sempre lei che firma il nostro stand del Salone del Mobile di Milano. È suo quest’anno, come molte volte in passato, anche il main product della collezione: il divano Step”. La poliedricità e la ricerca hanno portato l’azienda sulla strada delle discipline artistiche. E quindi alla creazione del Premio Moroso per l’Arte contemporanea, e alle collaborazioni con istituzioni culturali come il MoMa di New York, il Palais de Tokyo e il Grand Palais di Parigi, La Biennale Internazionale d’Arti Visive di Venezia, e con alcuni fuoriclasse del mondo dell’arte e della creatività a livello mondiale, come Marina Abramovic, Paola Pivi e Olafur Eliasson.
LUCE VERDE A VENEZIA
Oggi, l’azienda friulana ha scommesso sul progetto veneziano di Eliasson, “Green Light – An Artistic Workshop”. La luce verde della lampada simboleggia un metaforico benvenuto nei confronti dei richiedenti asilo, ed è la metafora perfetta della filosofia aziendale, cioè della ‘bottega’ che diventa una piattaforma di scambio di esperienze e valori. “Noi abbiamo aiutato Olafur a realizzare gli arredi per questo spazio di lavoro, che risulta diviso in tre macro zone”, riprende Patrizia. “Una serie di tavoli e di librerie in multiplex e acciaio, disegnati da Eliasson su misura per il workshop, delimita l’ingresso e il luogo adibito alla produzione; un’area con posti a sedere disposti a semicerchio funge da anfiteatro per incontri e seminari, mentre alcuni divani ‘Lowseat’ e delle sedie ‘Tropicalia’ firmati da Patricia Urquiola formano un salotto ad angolo destinato al relax e alla conversazione”. Il risultato è un luogo individuale e al tempo stesso collettivo, che parte dall’attività pratica del laboratorio per poi aprirsi a un dialogo più ampio con i visitatori e con la società. “Green Light un esempio molto chiaro di come si possa operare con i profughi e aiutarli in modo costruttivo. Vivendo e lavorando con loro, confrontando idee, storie e conoscenze”, conclude Moroso. “Se solo non fossero stati costruiti i muri della diffidenza e della paura, questo piacere del fare, e del fare insieme, dovrebbe essere un prezioso insegnamento per tutti. La nostra storia nel corso dei millenni è sempre stata costruita sugli incontri, ma la voglia di incontrare dipende solo da noi: se non vuoi incontrare, non avrai incontri. Se invece vuoi incontrare, gli incontri arriveranno da te e saranno importanti, sorprendenti, unici. Senza condivisione, la vita cos’è?”.
di Monica Montemartini