Quelli che hanno trovato successo all’estero, tornano a milano per il salone del mobile – portano con sé progetti, immaginano diversi equilibri con il sistema italia – sono storie che possono indicare una nuova via per l’arredo nazionale
Altro che ‘fuga dei talenti’ italiani all’estero. Per il sistema arredo, il problema è quello di comprendere i nuovi legami con i designer nazionali che hanno trovato fortuna all’estero. Rappresentano un fenomeno che potrebbe indicare la via per una dimensione che abbatta i confini nazionalistici, oltre a segnalare alle aziende in Italia una modalità di valorizzazione del patrimonio creativo.
Il percorso inizia dagli studi all’estero. Lo testimonia Enrico Fratesi dello studio GamFratesi che, con la compagna Stine Gam dalla loro base a Copenhagen, stanno rivelandosi una delle realtà più promettenti in Europa (sono reduci dall’essere stati i Guest star designer alla Stockholm Design Week): “Dopo esserci laureati, abbiamo scelto di rimanere perché c’erano subito lavori e workshop. Poi sono iniziate le collaborazioni (Swedese, Gubi). Sicuramente il nostro linguaggio si adatta allo stile del luogo”. Stesso percorso per il dream duo FormaFantasma, base in Olanda, che viene proprio in questi mesi celebrato da prestigiosissime mostre allo Stedelijnk Museum, una al Miart e poi al Fuori Salone. “Siamo arrivati nel 2007 ad Eindhoven, e a settembre 2009 – racconta Andrea Trimarchi di FormaFantasma – abbiamo aperto lo studio, idea nata anche perché la città era la sede della Philips, e ci sono molti spazi in disuso vantaggiosi. Già dopo il primo anno presentavamo progetti con Droog”. Stesso fulmineo exploit per Harry Thaler che, dalle Dolomiti altoatesine, è passato a un Master al Royal College of Art ( RCA) a Londra e “subito dopo questi due anni di formazione (2008), ha aperto uno studio ad Hackney”.
Una delle ragioni per cui si sceglie la strada dell’estero è quella di trovare un territorio che parli un linguaggio più consono al proprio, come nel caso di Trimarchi, per il quale “la partenza è stata intuitiva, seguendo lo stile del Nord Europa cui ci si sentiva più vicini per gusto e percorso”
“Sono partito per curiosità prima di tutto – racconta Duccio Maria Gambi che oggi ha un atelier-bottega a Parigi dove realizza personalmente i propri pezzi unici in cemento -, per vedere da vicino il contesto olandese (al leggendario Atelier Van Lieshout, ndr). Al ritorno in Italia, ho avuto subito voglia di ripartire, destinazione Parigi questa volta. Economicamente, l’esperienza italiana era stata deludente”.
Ma si parte anche perché c’è il dato non trascurabile della maggiore sostenibilità imprenditoriale, come spiega Harry Thaler: “La maggior parte dei miei amici e colleghi a Londra ha aperto uno studio, cosa molto più facile rispetto all’Italia. Tutto è meno burocratico e la gente non ha paura a investire nel proprio lavoro”.
Il territorio estero è utile per ristabilire una dignità e una sostenibilità alla professione del designer. Lì si viene pagati. Fin da giovani, si viene considerati già come consulenti. “Le aziende dovrebbero stringere rapporti più profondi e approfonditi con i designer – riprende Trimarchi – costruendo un dialogo ad ampio respiro, non solo per disegnare un solo prodotto. E’ quello che succede con Hella Hougheriuos con Vitra che oltre i prodotti cura anche la cartella colori”.
RESTA LA NOSTALGIA
Altro che dipartita creativa. Dei tanti designer italiani che hanno preso residenza, più o meno stabile, all’estero, ben pochi vogliono tagliare completamente i ponti. La maggioranza continua a tessere rapporti con il tessuto produttivo nazionale. Anzi, spesso sono proprio loro a ‘sponsorizzare’ le commesse da aziende estere ai fornitori italiani. Perché il valore del territorio e know how è ancora alto. Quale è il maggiore cambiamento che rilevano tornando in Italia? “La situazione è cambiata – spiega Fratesi – rispetto al tessuto dei fornitori. Purtroppo, ogni volta che torniamo in Italia, ne perdiamo sempre qualcuno, in quei capannoni pieni di produzioni specializzate, di attrezzature sofisticate. Noi stiamo iniziando a suggerire di portare la produzione in Italia ai nostri clienti esteri, in nord Italia e a Bologna. L’Italia ha la qualità, e può davvero essere competitiva nella produzione per l’Europa, perché non incide così tanto il trasporto. Soprattutto nei grandi volumi. Se hai la possibilità di fornire grandi volumi, i supplier italiani hanno le carte giuste per competere col Far East”.
Quindi cosa potrebbe essere ‘importato’ in Italia come terapia anti-crisi per il sistema design? Molti pensano che sia importante puntare sulla collaborazione di designer e artigiani locali, così come indica Gambi: “Credo che anche in Italia ci sia quel fermento che sta rivoluzionando il mondo del design, partendo dall’autoproduzione passando per i makers e per gli artigiani 2.0. Si dovrebbe cercare di mettere in relazione il ricco sistema artigianale diffuso in Italia, con designer che abbiano una visione internazionale. E investire gli spazi vuoti delle nostre città, provare a farli rivivere creando laboratori e spazi espositivi. In Olanda, ad esempio, lo stato e la città di Amsterdam investono e sostengono economicamente collettivi di designer che si propongono di rivalutare vecchi spazi industriali per installare laboratori partecipativi”. E’ necessario, prosegue, “che si evolva verso una condivisione di intenti e di mezzi, anche attraverso un sostegno degli uffici dell’Italia all’estero. Le università italiane sono ripiegate su se stesse, ce ne rendiamo conto bene al Salone, dove scuole di tutto il mondo vengono per mostrare i loro talenti e dove le nostre non esistono”. Rimanere all’estero o tornare? “Vorrei tornare – conclude Gambi – e come me spero anche le altre migliaia di giovani che stanno emigrando. Spero si divenga lo strumento per aprire un vasto dibattito”.
di Patrizia Coggiola