Si chiama “Earth Stations” il progetto visionario che lo studio De Lucchi ha dedicato alle città e ai luoghi di lavoro di domani. Un percorso con sei architetture che hanno la mission di creare condivisione.
Il quartier generale di Michele De Lucchi, a Milano, non è un semplice ufficio: è un laboratorio poliedrico dove l’architetto e designer, che è anche un abilissimo artigiano, un fotografo e da poco anche direttore della storica rivista Domus, studia con il suo team le infinite declinazioni del domani. La sua ultima sfida si concentra sull’evoluzione delle città, pensate per diventare anche e soprattutto luoghi di esperienza per le persone che le abitano.
‘Earth Stations’ è il progetto che racconta la sua visione urbanistica del futuro, organizzata intorno a nuove forme di scambio, di incontro e di interconnessione. Come è nato questo format?
In realtà tutto parte dal mondo dell’ufficio. Me ne occupo fin dai tempi dell’Olivetti. In effetti, il mio primo incarico professionale fu proprio quello di progettare mobili e arredi per la Olivetti Synthesis, l’azienda dell’Olivetti leader nella produzione di mobili da lavoro. Era il 1979. Sono trascorsi quasi quarant’anni e oggi il nostro modo di concepire l’ufficio è radicalmente mutato: l’obiettivo non è più organizzare al meglio tavoli e scrivanie, ma far sì che le persone interagiscano efficacemente fra loro. Gli uffici sono diventati luoghi dove i momenti di incontro sono sempre più importanti, si lavora ovunque, non solo al desk, e si è fatta strada l’idea che chi è solo sia poco produttivo rispetto a chi, invece, opera all’interno di un’organizzazione più dinamica e, soprattutto, più condivisa. Se questo è il trend, allora non ha più senso pensare a edifici divisi su più piani, ha più senso pensare a luoghi dove si concentrano le più grandi attrazioni delle città, come musei, gallerie d’arte ma anche caffetterie, biblioteche, palestre e centri commerciali, che stimolano la voglia di stare insieme e la creatività delle persone.
E l’ufficio, che fine farà?
Ufficio oramai è una parola triste, che non corrisponde più alla mentalità lavorativa contemporanea, più dinamica e propositiva rispetto al passato. Per questo abbiamo pensato a un nome diverso: ‘Stazioni del pianeta terra’. Le Stations nascono come luoghi di incontro della civiltà odierna o prossima futura: sono dei monumenti, così come una volta lo erano le cattedrali o le chiese. Ambienti dove le persone si incontravano per progettare il loro destino.
Quante sono queste Stations?
Ne abbiamo ideate sei e tutte in luoghi molto diversi uno dall’altro: in mezzo alla prateria, in cima alle montagne, nei Canyon del Colorado: nelle periferie delle città, sui fiumi o sui laghi. Dopo aver sentito che i centri commerciali in America sono in grande declino e che ci sono molti shopping mall che stanno chiudendo, mi piacerebbe trasformarne uno in una Earth Station. In un’ottica di recupero e di riconversione, mi sembra sia la cosa più naturale.
Che rapporto avranno queste stazioni con la vita delle città?
Le Stations sono la sintesi dei luoghi di attrazione della città condensate in un’unica area. In un certo senso potrebbero anche diventare degli attivatori di periferia perché riuscirebbero a fornire quel plus di vita sociale che va perdendosi a mano a mano che ci si allontana dal centro.
Se le Earth Stations saranno i luoghi dove progettare il futuro, che fine faranno le città ‘tradizionali’?
Credo che le città tradizionali, se gestite, continueranno a funzionare. Sono i luoghi dove si vive e si lavora avendo a disposizione tutti i vantaggi e le infrastrutture sociali. Quello che manca è il dialogo fra la vita privata e il tempo trascorso nei luoghi di lavoro, e le Earth Stations potrebbero davvero diventare la sintesi concreta di ques’esigenza di incontro e di scambio.
Saranno luoghi aperti 24 ore su 24: a cosa serviranno, in concreto?
Per renderle più comprensibili, le prime sei Stations sono state fatte ruotare ciascuna attorno a un concetto chiave. La Moat Station è l’evoluzione degli studi televisivi, la Mountain Station è uno spazio per conferenze, la Floating Souk Station è una fiera delle idee, la Crown Station è una biblioteca del futuro, la City Station ospita spazi di lavoro e laboratori, la Cloud Station è una location collettiva per nuove forme d’arte. Quando dico biblioteca penso non ci siano solo i libri digitali e cartacei ma anche uno spazio espositivo, una caffetteria e una palestra: tutto ciò che serve per vivere la cultura in maniera contemporane….
Qual è il loro valore aggiunto?
Ho progettato le Earth Stations come architetture fortemente iconiche. Come monumenti, monumenti della contemporaneità che portano dentro di sé i valori della contemporaneità, del continuo cambiamento, della sfida tecnologica… Tutto questo ci dà quel brivido intellettuale che ci fa sentire bene in tutti i contesti che, in un modo o nell’altro, rispecchiano le nostre ambizioni di oggi.
Che legame c’è tra le sue piccole architetture in legno e questi volumi fuori scala?
Il mio lavoro, quello di tutti gli architetti, i designer, gli artisti, consiste nel proiettare delle idee sulle cose. Nelle mie casette, nelle mie sculture, proietto un’immaginazione molto ancestrale, molto rustica, di vita semplice, molto privata. Invece nelle architetture delle Earth Stations proietto una visione molto più pubblica, più sociale, legata all’evoluzione della cultura e degli stili di vita contemporanei. Noi abbiamo sempre più bisogno di incontrarci e di confrontarci non solo con persone ma anche con idee, religioni e tradizioni diverse. E se riusciremo a costruire degli ambienti dove tutto questo avviene, nella forma più naturale e ispirata possibile, avremo centrato un obiettivo fantastico.
Il nostro mondo si indirizzerà davvero verso questa utopia positiva oppure le Earth Stations saranno solo delle isole, destinate a una minoranza di pochi fortunati?
In effetti faccio fatica a disegnare delle carceri, delle prigioni, dei luoghi di segregazione, dei ghetti perché non riesco a riconoscere il nostro futuro in spazi di questo tipo. È chiaro che le Earth Stations potrebbero essere degli obiettivi perfetti per il terrorismo, così come lo sono le chiese, cosi come lo sono gli aeroporti e i centri commerciali o qualunque altro luogo d’incontro. Queste sono architetture visionarie: sono proprio delle proiezioni di un possibile mondo del futuro, un invito a investire sulle capacità dell’uomo a organizzarsi per stare bene insieme.
Possiamo intendere il suo studio come un’incubatrice di questo concetto?
Un luogo dove convivono architettura, arte, fotografia, letteratura e dove, oltre agli spazi di lavoro, ci sono anche una biblioteca, un’area verde? Mi piacerebbe molto, ma non voglio essere così presuntuoso da affermarlo. Cerco il più possibile di infondere una mentalità evolutiva nei miei collaboratori, per cui tutti i lavori che si fanno insieme non si fanno semplicemente per applicare un savoir faire, quanto per rendere concreto e tangibile una previsione, uno sguardo rivolto al futuro. Lavoriamo in un’ottica di continua evoluzione, non per conservare e perpetuare le solite vecchie abitudini.
Secondo lei come saranno le città fra vent’anni?
Spero che acquistino più valore le cose fatte e pensate dall’uomo, gli aspetti emotivi e gli aspetti istintivi degli oggetti e dei progetti. Se noi fossimo in grado di valorizzare l’anima delle persone e dare una connotazione di valore all’istinto rispetto alla pura e semplice razionalità, ci troveremmo davanti a un grandissimo salto di civiltà. Devo dire che per certi versi già succede così. Per esempio: quando noi disegniamo degli appartamenti super tecnologici, domotici, costruiamo delle macchine perfette che però invecchiano velocemente; quando invece realizziamo un ambiente che ha una bella atmosfera, una buona armonia degli spazi, e lavoriamo in base a parametri non funzionali, non tecnologici ma sensoriali ed emotivi, questo spazio sarà destinato per 50, 100, 200 anni e quel valore che gli abbiamo dato è un valore che durerà nel tempo. È un pensiero che ispira tutto il mio lavoro. E spalanca numerose prospettive sul futuro prossimo e su come potremmo impostare la nostra nuova ricerca di valori.
di Monica Montemartini