Federmobili stima a fine anno un ritorno ai livelli pre-Covid. Alla consacrazione del digital si accompagna la conferma dell’importanza del negozio fisico. Dopo la pandemia, il sistema di filiera si è congestionato. Mauro Mamoli: “Rischio shortage per i materiali”.
Il 2020 del retail italiano si è chiuso sotto i livelli dell’anno precedente e non poteva essere altrimenti, considerando i due mesi di chiusura totale in primavera e le limitazioni che si sono ripresentate in autunno. Eppure, a conti fatti, è andata molto meglio delle previsioni. A raccontarlo è Mauro Mamoli, presidente di Federmobili (Confcommercio), associazione nazionale che riunisce i proprietari dei negozi di arredamento. Le sue sensazioni sono supportate dai dati dei sondaggi svolti periodicamente tra gli associati, dalle quali emerge anche una visione positiva per l’anno in corso.
Cosa è emerso dalle vostre analisi?
A maggio dello scorso anno, le perdite di incasso del primo trimestre erano nell’ordine del 30% e si temeva una flessione del 25% a fine anno. A settembre, nella seconda rilevazione, già i dati erano più contenuti: diminuzione stimata tra il 10 e 12% sull’intero 2020. Il risultato finale è stato -8% a livello nazionale e -6% tra le aziende-campione. Il quadro diventa favorevole parlando di previsioni per il 2021, che dovrebbe riportare il giro d’affari ai livelli del 2019: si parla di una crescita compresa tra il 7,5 e l’8%. In sostanza, nel nostro comparto c’è ottimismo perché sta continuando sia la buona affluenza all’interno dei negozi sia l’interesse per il mondo della casa.
Che tipo di clientela ha prevalso?
È una clientela prevalentemente di prossimità. Del resto, siamo rimasti tutti chiusi in casa per mesi e ci siamo resi conto che dovevamo rinnovare l’arredo, anche perché sono cambiate le esigenze di lavoratori e studenti, tra smart working e didattica a distanza. Questi cambiamenti hanno comportato la trasformazione di aree living e camere da letto in zone dove poter svolgere anche attività lavorative. Oggi la casa è un nuovo mondo da abitare.
Quali sono stati i principali cambiamenti a cui i retailer si sono dovuti adeguare?
Per forza di cose, è cambiato il modo di ingaggiare il cliente. L’utilizzo di strumenti di appuntamento e colloquio era nell’aria da diverso tempo, ma nessuno aveva ancora affrontato la possibilità di ridurre gli incontri in negozio per gestirli a distanza. Questo ha comportato una diversa organizzazione e imposto un cambiamento degli orari di lavoro, perché molti appuntamenti online vengono gestiti nei momenti in cui i negozi sono chiusi. Alla fine, questa trasformazione rappresenta un servizio aggiuntivo verso la clientela, che era già pronta al cambiamento e forse lo era più di quanto lo fossimo noi negozianti. Eppure, nonostante la comodità del sistema, la pressione affinché i negozi fossero riaperti è arrivata più dal consumatore che dal retailer, perché i potenziali compratori volevano toccare con mano i prodotti per concludere gli ordini di acquisto. La pandemia ha certamente dimostrato l’utilità dello strumento digitale, ma al tempo stesso ha confermato l’importanza del retail fisico per il cliente finale.
Arriviamo ai problemi: i tempi di consegna…
Dopo la riapertura di maggio, il sistema è andato in affanno perché agli ordini già in lavorazione e bloccati dalla chiusura dei comparti produttivi si sono aggiunti quelli innescati dai due mesi di lockdown, quindi i tempi si sono allungati di qualche settimana. La congestione si è poi prolungata durante l’anno e ancora oggi il problema persiste, anche perché nel frattempo è emersa l’incognita delle commodities: i prezzi dei materiali sono aumentati e ora si profila un rischio di shortage, con conseguenti previsioni di disagio a medio/lungo termine.
Qualcosa da rivedere all’interno della filiera?
In una situazione certamente eccezionale, il sistema delle pmi italiane ha probabilmente sofferto di più, rispetto alla concorrenza internazionale, queste dinamiche. Per rivedere il sistema servirebbero investimenti importanti, che francamente dubito possano arrivare: le aziende italiane del mobile sono diverse da quelle tedesche o polacche, che non a caso sono tra i principali fornitori della grande distribuzione organizzata. Non penso però che quella italiana sia un’impostazione tutta da rivedere, perché da qui nasce il punto di forza del prodotto, ma certamente occorrerebbe individuare una giusta mediazione tra i due mondi.
Quanto pesa l’assenza del turismo internazionale per i negozi di arredamento?
Certamente pesa, e il graduale ritorno alla normalità sarà importante per ritrovare l’equilibrio di un tempo. Intanto però abbiamo riscoperto la clientela italiana, da cui dipende l’attuale rimbalzo. Per gli stranieri, il primo test sul potenziale ritorno lo avremo a settembre in occasione del Super Salone auspicando che, da qui ad allora, la situazione di emergenza sanitaria sia ancora più verso il rientro. Credo che a Milano vedremo un certo ritorno di clientela internazionale. Il limite che pesa sul comparto è l’imprevedibilità della situazione, tale da non consentirci di fare programmi precisi.
di Andrea Guolo