Massimo Orsini, CEO di Mutina, racconta il programma di posizionamento e impegno culturale avviato dall’azienda emiliana.
Dalla ceramica all’arte, passando per progetti architettonici internazionali. Da un anno, Mutina, una delle aziende leader del distretto della ceramica, è protagonista di un progetto molto ambizioso. Mutina è entrata nel mondo dell’arte contemporanea e l’ha fatto con un progetto caratterizzato da tre anime. Si tratta di Mutina for Art, dove la sensibilità per la forma, l’attenzione all’innovare e la volontà di dare voce agli stimoli visivi del mondo attuale prendono vita in un nuovo programma culturale e artistico. L’impegno dell’azienda, così come la consapevolezza che i migliori investimenti siano in cultura, e nella sua comunicazione, emergono dalle parole di Massimo Orsini, che ha raccontato a Pambianco Design l’idea e quali ne siano gli obiettivi.
Come è nato Mutina For Art? E quali sono le intenzioni alla base?
È iniziato con un lavoro quotidiano, costante, che ad esempio mi ha portato a diventare collezionista d’arte contemporanea. In un percorso molto naturale, abbiamo deciso di rendere strutturato e articolato il nostro impegno nei confronti dell’arte contemporanea, riconoscendola come fonte di influenza, esperienza, e soprattutto territorio di scambio. Siamo sempre stati consapevoli che il mondo dell’arte avesse sia un’aura di cultura e di ricchezza intellettuale, sia precise dinamiche, quindi quando abbiamo deciso di far conoscere Mutina a quel mondo e aprire il nostro universo, sapevamo di doverlo farlo con estrema attenzione e serietà. Per questo abbiamo coinvolto una curatrice importante, Sara Cosulich (ex direttrice di Artissima, ndr), e le abbiamo affidato il progetto. Volevamo e vogliamo parlare al mondo dell’arte con gli strumenti che gli appartengono. Aver portato l’arte all’interno dell’azienda ha dato una grande crescita, internamente per i nostri dipendenti, ed esternamente nel mondo che ci circonda, tra i clienti e gli architetti che lavorano con noi.
Come è strutturato?
È diviso in tre parti. Un premio annuale, ‘This is not a prize’, che viene assegnato a un artista coinvolgendo una giuria composta da persone spesso non connesse al mondo dell’arte. Nasce con l’intento di scovare artisti con i quali si possa iniziare un percorso di collaborazione. È successo con Giorgio Andreotta Calò che abbiamo supportato alla Biennale di Venezia, e sta succedendo anche con Jochen Lempert, fotografo tedesco che ha vinto la seconda edizione e che tra poco inaugurerà una mostra da noi. Questo mi porta a parlare della seconda anima di Mutina For Art, ossia di Mut, lo spazio espositivo che abbiamo creato all’interno della nostra sede, una vera e propria sfida nel voler portare l’arte all’interno dell’impresa. Infine, Dialogue, ossia una serie di collaborazioni con artisti, gallerie e istituzioni artistiche internazionali per progetti site specific. Ad esempio stiamo lavorando a Toronto con l’artista inglese Sarah Morris per un intervento nella metropolitana, e stiamo concludendo un lavoro permanente al Museo Madre di Napoli.
Si può dire quindi che Mutina diventa un’azienda a supporto dell’espressività di un artista?
Sì, questo era il nostro primo obiettivo. A cominciare da ‘This is not a prize’, che non è un premio ma vuole essere un progetto. Ci piace molto l’idea di usare l’arte come collante per unire mondi che si assomigliano ma non coincidono.
Il design che entra negli spazi espositivi. Come succede e perché succede?
Le cose vanno sempre più velocemente, quindi credo sia difficile capire se ci sia ancora una netta distinzione. Sicuramente i due mondi si guardano molto e s’ispirano anche. Ritengo che siano ancora abbastanza diversi, anche se esistono casi di ottima produzione di design artistico. Di certo, le dinamiche che muovono i due mondi sono ancora molto diverse.
Ad esempio, a cominciare dai capitali che si spostano intorno al design da collezionismo rispetto a quello dell’arte?
Col tempo, pensa potrebbe cambiare? Bisogna precisare che l’arte è sempre qualcosa di diverso. Ha un approccio diverso. L’arte ha una forma di rispetto che si è guadagnata negli anni che il design oggi non ha, ancora. È avvicinabile, ma mai completamente. Di conseguenza, il collezionismo è qualcosa di strano e molto affascinante. C’è chi è terribilmente appassionato e chi non lo è affatto. In generale, comunque mi sembra che ci sia una sorta di ansia nel collezionare tutto, quindi probabilmente continuerà ad esserci una crescita anche per il collezionismo di design. Ad esempio, l’interesse per gli arredi scandinavi degli anni ‘50 adesso sta crescendo molto e ha un grosso collezionismo, mentre sul contemporaneo penso sia ancora qualcosa di nuovo. C’è ancora molto da fare, sicuramente.
di Costanza Rinaldi