Gli editori del design che fatturano tra i 10 e i 50 milioni di euro si muovono in ordine sparso, tra chi tenta la strada della resistenza e dell’indipendenza e chi sta a guardare, ‘monitorando’ le offerte anche dei gruppi industriali. Purché abbiano caratteristiche precise.
Piccoli editori crescono, tra le difficoltà e le sfide che il mercato globale pone. E purché assicurino qualità altissima del prodotto, innovazione tecnologica, logistica super efficiente e una forte capacità di programmare e gestire i fornitori. Elemento, quest’ultimo, dirimente ai fini della sostenibilità del business stesso. Le aziende che sono nate o hanno abbracciato questo modello produttivo, oggi stanno sul mercato a patto di rispettare i requisiti di cui sopra. Se lo fanno, crescono e arrivano a mettere a segno un giro d’affari importante. Tra gli editori che mostrano di possedere caratteristiche tali da essere competitivi ci sono Agape, Alias, Ethimo, Henge, Foscarini, De Padova, Cappellini, Paolo Castelli, Zanotta, Visionnaire. L’analisi del loro fatturato evidenzia una dinamica costante nel tempo, con poche eccezioni dovute essenzialmente al fatto di essere realtà legate al contract, dove lo slittamento dei cantieri è tema frequente e comporta, conseguentemente, la computazione all’anno successivo del fatturato relativo.
SOTTO IL SEGNO +
Alias ha chiuso il 2018 con un giro d’affari di 16 milioni di euro. Per il 2019 “gli obiettivi non sono particolarmente sfidanti – spiega Andrea Sanguineti, brand manager e design director – perché siamo concentrati su un percorso di crescita di portafoglio prodotti”.
Crescita costante per Ethimo: “il 2019 è andato molto bene: avevamo l’obiettivo di raggiungere i 15 milioni di fatturato, ma l’anno è stato migliore delle previsioni e supereremo questa cifra, attestandoci ben oltre il 20% rispetto al 2018”, spiega il ceo Gian Paolo Migliaccio.
Paolo Castelli, che ha chiuso il 2018 a 25 milioni di euro, aveva un obiettivo 2019 di 30 milioni. “Ad oggi – spiega il fondatore e titolare Paolo Castelli – siamo a 25 milioni. Fondamentale sarà l’ultimo mese e mezzo dell’anno, anche se non dipende direttamente da noi ma da un cantiere che comprende diverse altre aziende”.
Visionnaire ha chiuso il 2018 con un giro d’affari pari a 45 milioni di euro. “Un record nella storia del gruppo”, commenta Leopold Cavalli, evidenziando anche “un margine operativo lordo al 24% delle vendite”, in progressione rispetto al 22,7% dell’esercizio precedente.
Zanotta, che ha terminato il 2018 a 17 milioni di euro in aumento rispetto ai 16 milioni del 2017, è, per l’anno in corso, in linea con il budget prefissato. “L’anno – anticipa il presidente e amministratore Giuliano Mosconi – dovrebbe chiudere intorno ai 19-20 milioni di fatturato, in crescita di circa il 10% rispetto all’anno precedente. Dunque, siamo assolutamente nel percorso che avevamo tracciato”.
Decisa crescita per Henge, passato da 11 a 16 milioni di euro dal 2017 al 2018. E per il 2019, anticipa l’ad Paolo Tormena, Henge chiuderà il fatturato 2019 “in linea con quello dello scorso anno. Siamo molto contenti perché, se manteniamo rispetto al risultato del 2018, gli ordinativi dell’anno 2019 sono in aumento del 20%, quindi il portafoglio per il 2020 si presenta molto sostanzioso. Tenendo poi conto delle tante aperture fatte recentemente e di quelle prossime: Beirut, Taiwan, Beijing (apertura il 24 novembre), a breve Miami, Johannesburg e Mosca, i presupposti per il prossimo anno sono ottimi”.
Agape aveva chiuso il 2018 con un giro d’affari di oltre 14 milioni di euro, uno in più rispetto al 2017, e per fine dicembre prevede un risultato leggermente superiore. “Dipenderà dalle ultime settimane dell’anno – fa sapere il ceo Emanuele Benedini – ad ogni modo pensiamo di chiudere intorno ai 14,5-15 milioni di euro”. Per il 2020, in ogni caso, Agape punta a “un incremento abbastanza consistente, dal momento che otterremo le certificazioni legate a nuovi rubinetti che porteranno a una crescita interessante”.
De Padova nel 2017 aveva superato i 10 milioni di euro e l’anno successivo si era portata oltre quota 11. In leggero calo Foscarini, scesa da 41 milioni a 39 milioni: l’anno in corso “sta chiudendosi con un segno positivo – spiega il presidente Carlo Urbinati – che dovrebbe essere confermato alla fine dell’anno. Nulla per cui fare particolari festeggiamenti, ma neanche niente di scontato né facile. Il target è rimasto un po’ lontano, ma effettivamente si è rivelato ambizioso e non solo per fattori dipendenti dalla nostra volontà”. Cappellini, infine, essendo parte di Lifestyle Design (ex Poltrona Frau Group) a sua volta interamente controllata dal gruppo statunitense Haworth, non entra nei dettagli ma l’art director Giulio Cappellini sottolinea: “Ognuno si muove indipendentemente, i numeri vanno nel consolidato e tutte le aziende del gruppo sono andate bene”.
Fin qui i numeri. Ma il grande tema che si pone per ciascuna di queste realtà imprenditoriali, così come per tutte le altre del resto, è come sostenere finanziariamente la crescita. Anche perché non mancano le proposte di investitori e fondi di private equity.
LIBERTÀ E OPPORTUNITÀ
Alias apparteneva fino al 2015 al gruppo Poltrona Frau (oggi Lifestyle Design). Quell’anno, fu acquisita dall’imprenditore svizzero Beat Zaugg. L’indipendenza dagli altri gruppi costituisce in pratica la sua scelta. “Le dimensioni aziendali, per realtà come la nostra, non sono facili da gestire: sempre di più queste aziende tendono ad aggregarsi in grossi gruppi. Noi ne siamo usciti”, sottolinea Sanguineti. Conseguenze? “Maggiore libertà espressiva, purezza del brand”, ma anche la consapevolezza di avere minore potere contrattuale rispetto a un grande gruppo. Si tratta del prezzo da pagare, in un certo senso, alla creatività. E intanto Alias finanzia la propria crescita “con capitali privati”.
Per quanto riguarda invece l’apertura del capitale all’esterno, l’ad di Ethimo evidenzia che sono già diversi gli investitori esterni, tra società e fondi di private equity, che ha espresso interesse. Ma al tempo stesso non è escluso che sia Ethimo a crescere per linee esterne tramite acquisizione. È un tema aperto, sicuramente per il futuro”.
SOCI O BORSA?
La Paolo Castelli è al 55% in mano dello stesso Paolo Castelli e al 45% di Alberto Masotti (ex proprietario de La Perla), “che è entrato come business angel nel capitale nel 2011. Tante scelte che ho compiuto, compreso l’essere editore e non produttore, mi sono state suggerite da lui” confida Castelli, che al momento non ha progetti diversi dal proseguire sulla strada intrapresa.
Per quanto riguarda Visionnaire,
“è un’azienda che – evidenzia Cavalli – da sempre produce abbondante cassa, grazie al suo modello di business unico. Noi non siamo un’industria, noi customizziamo e, per questo, il pagamento che richiediamo ai nostri clienti è ‘upfront’. Il fatto che abbiamo 60 anni di storia dimostra che sappiamo rispettare le promesse che facciamo alla nostra clientela. Ecco quindi che questa azienda trova nell’autofinanziamento il suo modello naturale”.
Anche Zanotta si finanzia con capitali propri. “Siamo in un momento in cui è facile avere risorse” confida Mosconi. Dall’acquisizione da parte di Tecno del 2017, la compagine societaria “è assolutamente sempre la stessa. Siamo in un percorso di gruppo che sta crescendo in maniera importante, anche nei mercati più lontani”. Per quanto riguarda l’apertura all’esterno del capitale, “sicuramente siamo sotto pressione perché ci sono alcuni che si stanno avvicinando però, se sarà, di certo non a breve”.
De Padova fa parte del gruppo Boffi che è “in larga parte detenuto dalla famiglia Gavazzi, cui si affiancano in parte quelle di De Padova e Boffi” sottolinea l’amministratore delegato Roberto Gavazzi. “Al momento lo sviluppo si è concretizzato attraverso autofinanziamento e accordi di collaborazione. Non è necessario valutare altro, ma lo faremo sicuramente se un domani fosse necessario fare ricorso ad altre fonti o nuovi azionisti per dare un’interessante accelerata ai progetti di crescita e rafforzamento del gruppo. Certo, in quel caso ci rivolgeremmo solo a chi ha una logica di investimento di lungo periodo, comprendendo bene le variabili chiave di successo di un settore molto sociale nelle variabili chiave di successo come il nostro. Oppure anche una quotazione in Borsa, se le dimensioni da noi raggiunte e le condizioni di mercato la rendessero favorevole”.
Della famiglia Tormena anche il 100% del capitale di Henge. “Non abbiamo soci. La crescita la finanziamo con mezzi propri, non usiamo strumenti finanziari, credito bancario o altro. Abbiamo programmi di investimento importanti per 2020-2021. Grandi novità che non si possono ancora raccontare. Nel 2021 daremo vita alla nostra nuova factory, un progetto complesso che esprimerà tutti i nostri valori, estetici ed etici. Il luogo dove i nostri clienti internazionali verranno a scoprire il nostro mondo, compresi materiali speciali, limited edition”. Sull’apertura all’esterno del capitale, “proposte ce ne sono state fatte, ma pensiamo che per il momento si debba proseguire nel nostro percorso”.
OLTRE LA SOGLIA CRITICA
“Non abbiamo difficoltà a trovare investimenti” garantisce Emanuele Benedini di Agape. “La fiducia da parte del sistema esiste e non è un problema. Per crescere in termini di mercato in una realtà complessa, è necessario crescere dimensionalmente”. L’azienda è ancora oggi di proprietà di una famiglia. Quella di Emanuele Benedini, che ha la maggioranza, e del fratello Giampaolo. “Richieste e proposte per entrare nel capitale sono quasi quotidiane: provengono soprattutto da private equity”. Per il futuro? “Io credo che il modello di azienda italiana nel settore del design abbia bisogno di una visione precisa, di una sensibilità nei confronti del mercato e della collezione che, nel momento in cui si perde il controllo della società si vanifica”. “Un’azienda come la nostra, più strutturata dal punto di vista manageriale, può ottenere risultati in tempi più rapidi, ed è la direzione che stiamo seguendo.
Foscarini, per filosofia e per storia, lavora con capitali propri. “Delle banche, quando c’è stato qualcosa di molto speciale e impegnativo, ci è capitato di avere bisogno: hanno apprezzato il fatto che per tanti anni abbiamo lavorato autofinanziandoci”, spiega Urbinati. “Per difendermi da offerte sempre più pressanti e frequenti da parte di private equity, dico sempre con una battuta: capisco che vogliate investire in noi, visto che è quello che ho appena fatto io”. Il riferimento è all’operazione che ha permesso a Urbinati di rilevare la quota del precedente socio. “Quando il mondo della finanza pensa di trovare grandissimi ebitda nel mondo del design per via di un paio di assonanze con la moda, che io non trovo del tutto corrette, resta deluso”. Altra cosa, osserva, “è la nascita di gruppi industriali. Esiste una pressione importante, che è anche oggetto di discussione in questa azienda. La monitoriamo”. Un modello, quello dei gruppi industriali, che può funzionare, a patto che “chi fa luce stia con chi fa luce e non si trovi nello stesso gruppo di chi fa bagni, salotti, arredamenti e cucine. A mio avviso, queste associazioni non hanno dato prova di poter aumentare la capacità creativa, anzi… Guidare un’azienda creativa guardando all’ultimo numero in basso a destra del bilancio, di solito non funziona. Per chi non ha un’origine nel mondo della creatività, e riferimenti di questo mondo, non rimane tanto altro che guardare a quel numero”.