Favorire la diffusione dei servizi sul territorio, così da non doversi spostare inutilmente; rendere i luoghi di lavoro attraenti e piacevoli; incentivare la mobilità condivisa, ma anche la locazione degli imnnobili: l’architetto Patricia Viel rivela le linee guida per progettare le città del futuro – policentriche, certamente, ma anche ricche di servizi e relazioni. Digitali e verdi. I nuovi parametri dello sviluppo urbano sono già in divenire in alcuni progetti a cui Viel con il suo studio ACPV Antonio Citterio Patricia Viel sta lavorando: a Milano il business park Symbiosis, la riqualificazione di Sesto, lo sviluppo di Cascina Merlata, a Roma la sede di Enel. Una visione a tutto campo, dalla scala micro degli arredi domestici a quella macro del masterplan di un quartiere.
La città policentrica è ritenuta il modello urbanistico del futuro. È così anche per l’Italia?
La città policentrica non è un modello nuovo: le grandi capitali della vita civile del nostro mondo – New York, Londra, Parigi, Berlino – sono policentriche. Ma l’Italia è un Paese particolare, con una struttura geografica che fa sì che, accanto a centri urbani relativamente grandi, ci sia una miriade di piccoli centri abitati di grande qualità, ma difficili da raggiungere. Quello che davvero sta cambiando è che, dal punto di vista dei fattori di necessità, la connessione fisica sta cedendo il passo alle connessioni digitali. Il nostro Paese può facilmente entrare nel paradigma del modello urbano policentrico contemporaneo, addirittura scavallando i confini dei comuni: ad esempio, Milano è all’interno di una regione urbana più ampia che arriva a Torino, Bergamo e Brescia. Le regioni favorite come la Lombardia, con ferrovie e autostrade, verranno raggiunte da regioni meno facili da connettere, perché ora la priorità si sposta sulla connessione digitale. Anche nel PNRR c’è una fortissima leva di progetto che prevede le infrastrutture, con priorità altissima su quelle digitali, proprio perché l’idea ‘città versus campagna’, ‘lavoro versus non-lavoro’ è totalmente esplosa, non ha più alcun senso. Questo aspetto ha come risvolto un rapporto con il tempo che è completamente diverso e che investe i rituali della vita comune: le cose si fanno perché sono parte di un progetto del quotidiano non preconfigurato. Ne consegue una profonda revisione dei rapporti istituzionali – famiglia, scuola, lavoro, Stato: abbiamo appena iniziato a percepire questi profondi cambiamenti.
Qual è il fattore chiave di questo cambiamento?
La digitalizzazione estesa, diffusa, capillare, e la cultura della digitalizzazione. Agiscono sulle filiere commerciali, sul controllo della qualità del lavoro, la trasmissione delle informazioni, la verifica del tempo, le catene di decisione e di approvazione: è una rivoluzione profondissima. Il nostro Paese è arretrato da questo punto di vista. La priorità massima va data all’industria, alla rete commerciale, ai modelli di spesa (il contante non deve servire più), per passare alla sanità, al rapporto con il medico di base e tanto altro. La pandemia ha cambiato i comportamenti, quindi le persone hanno già questi bisogni: il solco è stato creato. Il modello esistenziale del lockdown, che era una follia perché era obbligatorio, diventando un’opzione ha scardinato una serie di fattori acquisiti. Le grandi organizzazioni si devono reinventare: la pubblica amministrazione deve rieducare tutta la sua filiera di rapporto con il pubblico. Dal punto di vista della città, anche il rapporto con la pubblica amministrazione deve cambiare: non ha senso avere mastodontici luoghi dove alle piccole necessità del cittadino si risponde in presenza. I grandi contenitori dedicati all’erogazione dei servizi cittadini avranno sempre meno senso. Questo significa essere policentrici: non solo avere i quartieri attivi, ma non dover prendere la metro per fare un certificato.
Il nostro studio sta lavorando sia su progetti di nuova costruzione e di trasformazione, ad esempio a Milano Sesto con Hines, sia su progetti di rigenerazione. In entrambi i casi il fenomeno è molto simile: è fondamentale ristabilire il rapporto con il suolo urbano come luogo abilitante a ricevere e offrire dei servizi e fare rete fra diverse forme di organizzazione del vivere comune. A Milano Sesto il progetto delle residenze include moltissimi servizi che si fondano sull’interazione tra le persone.
Come si traducono questi stimoli nello sviluppo del real estate?
Gli sviluppatori spingono la locazione piuttosto che la vendita perché il cambiamento dell’utente porta valore alla città. Il fatto di possedere una casa e darla in eredità ai figli è stato ed è un piombo spaventoso per l’Italia, che ha ridotto la mobilità, la flessibilità, la possibilità di intervenire sul patrimonio edilizio esistente per rigenerarlo, perché di tanti piccoli proprietari che non hanno i mezzi per finanziare la riqualificazione.
Oggi la valorizzazione dell’immobiliare tiene conto di fattori fino a oggi non praticati: il cambiamento degli utenti, l’offerta di servizi, la capacità di fare rete all’interno dello stesso complesso o area di sviluppo. È quello che è accaduto a Cascina Merlata, area a nord ovest di Milano, un progetto che il nostro studio ha seguito come masterplan, e in parte costruito. Abbiamo osservato una formidabile capacità di generare servizi da parte degli stessi abitanti, che hanno costituito reti di servizi e di reciprocità. Lo stesso avverrà nei progetti di rigenerazione urbana al centro delle città, dove il contesto cambia molto, perché sia Sesto che Cascina Merlata sono cosiddette ‘periferie’. In realtà non lo sono affatto: sono sono lontane dal centro storico della città, ma capaci di generare centralità perché hanno la massa critica. In questi luoghi i progetti contengono l’ossatura del quartiere – la scuola, materna, gli alimentari, la chiesa piuttosto che la moschea. Non hanno però la densità e la compattezza del centro storico, dove il problema è analogo ma un po’ diverso.
Quello che cambierà moltissimo in centro è il commercio. Gli spazi retail non offriranno più solo lo scambio di merce per denaro, ma conterranno cultura e servizi; non saranno permanenti e non avranno una configurazione statica, ma saranno capaci di attrarre perché cambiano continuamente. I piani terra degli edifici del centro storico diventeranno spazi aperti a esposizioni, manifestazioni culturali, pop-up stores, nuove imprese, trasformandosi in spazi molto più ciclici e vivi di quanto non siano oggi.
Questa evoluzione comporta una riduzione delle superfici residenziali?
No, le case non saranno più piccole. La rottura dei rituali implica l’imprevedibilità: si deve poter avere il ‘lasco’, la possibilità di condividere spazi dei quali non si è certi di avere il controllo. I bambini non vanno a giocare sempre alla stessa ora, chi va al lavoro oggi non va domani, ma lo decide all’ultimo; in assenza di una programmazione rigida e statica, si ha bisogno di più spazio, di poter riconfigurare una stanza per fare uno studio, di poter togliere le sedie e il tavolo per metterli da qualche parte (negli spazi ancillari, di servizio). Nel design per il residenziale vedo più interessanti oggetti riducibili, sedie pieghevoli, librerie che sono anche contenitori, con antine removibili. Non c’è più il contenitore d’apparato e quello di servizio: il contenitore diventa una commodity generica, in una casa che può riconfigurarsi e cambiare funzione nel tempo. Sarà molto importante che la casa abbia spazi esterni: giardino, balcone, cortile che si può condividere. Milano potrebbe riqualificare i suoi cortili: spesso il regolamento di condominio vieta l’utilizzo del cortile! Dovrebbero invece essere spazi dove si può condividere un momento di relax, per i bambini, per gli animali domestici. E vero che la gestione rappresenta una difficoltà, ma a questo potrebbe contribuire la figura del portinaio.
Nella nuova configurazione urbana quale ruolo avranno i luoghi di lavoro?
Si è già ridotto moltissimo il concetto di workstation fissa. L’esigenza forte è di riconsiderare l’architettura tecnica e digitale delle grandi organizzazioni, perché chiunque oggi deve poter lavorare da casa sua, in plug-in in ufficio o con una rete mobile quando è occasionalmente in un altro ufficio; si deve polverizzare la capacità di accesso al lavoro, e questo per le grandi organizzazioni significa una profonda revisione delle infrastrutture digitali. Inoltre, i luoghi di lavoro devono essere belli, attraenti, di grandissima qualità e generare l’opportunità di andare in una parte della città che si frequenta meno. Oggi ha meno senso un headquarter in centro città, quanto piuttosto in una zona che ha un parco, una vista, una situazione di contorno non usuale. A Milano stiamo completando il business park di Symbiosis nella zona sud di Porta Romana, dove stanno arrivando dei tennant prestigiosissimi, che fino a tre anni fa avrebbero scelto il centro storico, mentre oggi cercano la qualità ambientale. Quella zona ha un carattere peculiare, offre spazi verdi e servizi: l’ufficio fa da concierge, da casella di posta per pagamenti, c’è la palestra, il parrucchiere, l’asilo anche temporaneo per i bambini, l’officina e il deposito per le biciclette. L’organizzazione dello spazio per il lavoro deve fare queste veci, così alimenta la città policentrica.
Se Milano rappresenta un’area di sperimentazione del nuovo modello di città, come procede il resto d’Italia?
A Roma stiamo lavorando all’headquarter di Enel, una cittadella per quattromila persone. Enel è un’azienda globale con necessità di networking e un modello organizzativo estremamente avanzato. A Roma stiamo seguendo anche altri progetti e avvertiamo l’emergere di una cultura urbana diversa: ci si sta rendendo conto che una città con tali qualità paesaggistiche non può essere così inquinata dalla presenza delle auto. Dovrebbe prevalere l’immagine della città-simbolo della nostra civiltà, che va oltre al fatto di essere capitale. Roma deve offrire al visitatore un’immagine rispondente al suo prestigio. Bisogna disincentivare il possesso di un’auto: il lavoro sulla città dovrà spingere i comportamenti verso l’utilizzo della mobilità condivisa o di quella pedonale.
Quanto influisce la politica su di uno sviluppo urbanistico realmente innovativo?
Bisogna distinguere la politica dalle politiche: la politica che è in grado di fare delle politiche efficaci è scientifica e non cerca il consenso, si basa su dati: demografia, modelli di mobilità, capacità tecnologica di controllo degli effetti, investimenti. All’origine c’è una decisione politica, che porta alla formulazione di politiche: così si governa. Se invece si fa politica solo per il consenso, senza lavorare sui dati e sulla modellazione di quello che accadrà in futuro, non si approda a nulla.
Nell’ambito dei materiali, qual è quello che vorrebbe avere a disposizione e ancora non esiste?
Nel settore delle costruzioni credo che il nostro Paese abbia molto bisogno di una spinta all’industrializzazione. C’è ancora molto artigianato, il cantiere italiano tipico si costruisce ad hoc per il progetto, si fa il cemento in sito, si costruisce in calcestruzzo armato, la filiera edile dal punto di vista dei contenuti tecnici e della carbon footprint è molto arretrata. Dobbiamo fare in modo che la nostra industria delle costruzioni vada verso una maggiore prefabbricazione. L’utilizzo di materiali evoluti non significa sostituire il calcestruzzo con il legno, ma il controllo della filiera, come viene prodotto l’elemento architettonico finito e come viene gestito sul cantiere. I cantieri devono essere molto più brevi, proprio perché si deve poter costruire con elementi pensati per essere installati e montati, che è la direzione più sostenibile oggi. Abbiamo una cultura della costruzione che è una ricchezza, ma deve essere fatta evolvere con la digitalizzazione dell’approvvigionamento, del cantiere, del progetto, della gestione e del controllo del ciclo di vita degli edifici. L’Italia è il Paese leader al mondo per le tecnologie legate alle ceramiche, in particolare il gres porcellanato, estremamente durevole, che si produce da materie prime purissime, con un altissimo contenuto tecnologico. È un nostro patrimonio, un asset in fortissima espansione, così come le lavorazioni del marmo e della pietra naturale. Non c’è più bisogno di lavorare il marmo in spessore, poiché viene realizzato in lastre sottili che limitano il peso e il consumo delle cave.
Come vede i nostri ragazzi, soprattutto quelli che hanno passione per l’architettura? Come dovranno muoversi per traghettare la professione nel futuro?
Premetto che credo moltissimo nei giovani: dovremmo lasciarli fare. Il mondo è talmente cambiato che, per quanto possiamo essere attenti, umili e concentrati sulle cose che facciamo, la nostra comprensione della realtà attuale è molto limitata. È un problema di scollamento dei nostri saperi rispetto alla realtà in cui viviamo. Siamo in una fase di transizione: oggi il mercato del progetto è atomizzato in una insensata moltitudine di piccoli studi professionali che non sono in grado di affrontare un progetto correttamente. Oggi per affrontare un progetto è necessario avere un’organizzazione che abbia degli standard qualitativi, dei modelli di metodo costanti e che possa confrontarsi con società committenti che hanno, a loro volta, dei paradigmi di qualità molto alti. I giovani architetti italiani hanno una formazione molto avanzata, eterogenea e completa, e la multidisciplinarietà in questa professione è fondamentale. All’interno del progetto si deve poter dialogare con tutti, essere laterali, entrare nelle scarpe del committente. Bisogna combinare i saperi informatici alla comprensione globale e umanistica del progetto. E non dimenticare la bellezza, il punto di forza del nostro essere italiani.