Il brand prima del prodotto. Dando per scontato che il secondo sia alto di gamma, di qualità assoluta. Per muovere le pedine sulla scacchiera internazionale, essere bravi non basta. Bisogna che questa capacità sia innanzitutto percepita con chiarezza. Come? Dando forza e riconoscibilità al brand.
Il marchio. Troppo sottovalutato in Italia. Per ragioni che, a guardare bene, ci fanno anche onore. E che hanno a che fare con la qualità assoluta del prodotto di design, come della moda, del food. Insomma, ovunque ci si volti a guardare. Questo è stato a lungo sufficiente, bastevole per imporre il prodotto italiano all’estero. Il famoso made in Italy. Un brand esso stesso. Che però non basta più. La competizione globale cambia le carte in tavola. E richiede, in questo senso, una consapevolezza in più. “Sicuramente il made in Italy è da sempre sinonimo di qualità e valore” evidenzia in premessa Tiziana Campigli, avvocato specializzato in diritto della proprietà intellettuale e con esperienza in house maturata in diverse aziende, tra le quali The Walt Disney Company, Percassi e Magister Art e in in2law, società di Deloitte Legal. Il contesto è favorevole a livello internazionale per valorizzare tutto ciò che proviene dall’Italia: “certamente c’è un effetto Draghi” nota Campigli, al quale si aggiunge un “elevato livello di fiducia, di capacità di leadership, di investimenti effettivi”. Ma, “ci sono poi le nostre piccole e medie imprese che con la loro proverbiale e unica ‘flessibilità’ stanno rispondendo in maniera eccezionale al momento molto complesso. Tant’è che le esportazioni stanno trainando il nostro Pil. E’ un momento storico – chiosa – in cui varrebbe la pena investire sul made in Italy, sui marchi di prodotto e sulle Dop”. Ma come se la cavano, in questo senso, le imprese italiane? Non benissimo, “o quanto meno non siamo tra i migliori. Faccio spesso l’esempio, a livello di Paesi, della Francia, molto più capace di noi a valorizzare le sue bellezze artistiche, i suoi asset nel food, nell’arte, nella cultura, pur avendo solo minima parte del nostro patrimonio”. Invece in Italia le aziende stesse “non attribuiscono la giusta importanza ai propri brand mancano di creatività orientata all’ideazione di un marchio registrabile, faticano a trovare un marchio distintivo e caratterizzante dei propri servizi e prodotti, non investono nella comunicazione del marchio” almeno quanto fanno all’estero. Eppure, solo per citare un esempio, mentre l’Italia è patria del food di qualità, secondo la recente ‘Brand Finance Food & Drinks’, le sole Ferrero e Barilla rivestono posizioni rilevanti nella classifica dei più apprezzati trademark alimentari. Cosa manca per scalare la classifica e migliorare il ranking? “Manca – spiega l’esperta – come in tanti altri settori, come la moda, il cosiddetto ‘Campione Nazionale’. In un contesto sempre più globalizzato e sempre più competitivo, la frammentazione, classica caratteristica del tessuto produttivo nostrano, non porta ad altro se non a vedere tante nostre famose piccole aziende essere acquisite dal colosso straniero di turno”. Un pericolo trasversale a molti comparti. La nota positiva è che, a differenza del passato, sembra che anche ai piani alti vi sia consapevolezza di questo tema, che può diventare cruciale. Ecco che, tra l’altro, il Pnrr ha generato il ‘Bando Marchi +’, un intervento agevolativo affidato dal Mes a Unioncamere proprio per sostenere le pmi nella tutela dei marchi all’estero, sia a livello europeo sia internazionale.
Ma ancor prima, l’articolo 110 del decreto Agosto (dl 14 agosto 2020, n. 104, convertito nella legge 13 ottobre 2020, n. 126) ha previsto una nuova disciplina di rivalutazione dei beni d’impresa. “L’iniziativa – spiega Campigli – consente alle imprese di rivalutare contabilmente i propri asset, permettendo in concreto, di aumentare la patrimonializzazione. Ma non è tutto. I reali benefici si apprezzano sul piano fiscale: la rivalutazione in positivo dei beni dell’impresa consente di incrementare il valore degli ammortamenti e, di conseguenza, abbattere il carico fiscale. In tal caso, è prevista la corresponsione di un’imposta sostitutiva agevolata. Si è discusso molto dei consistenti vantaggi che la normativa in questione è in grado di produrre e un’attenzione particolare è stata rivolta alla possibilità di rivalutare in bilancio i diritti di proprietà intellettuale”. Ora, la norma di legge parla genericamente dei ‘beni di impresa’, ma “il nostro interesse si rivolge alla categoria relativa ai beni immateriali giuridicamente tutelati, con particolare riguardo a quelli di proprietà industriale ed intellettuale. Questi asset, spesso, risultano iscritti a bilancio per un valore molto inferiore rispetto a quello reale. Tramite il Decreto Agosto, le imprese possono cogliere l’occasione per rettificare detti valori, usufruendo di consistenti incentivi” sottolinea l’avvocato. E gli asset che possono essere oggetto di rivalutazione sono brevetti, design, copyright e segreti commerciali e, appunto, marchi.
UN ASSET NEL BILANCIO AZIENDALE
Accade spesso che i diritti di proprietà intellettuale siano sottostimati all’interno dei bilanci delle società. Non è raro, ad esempio, vedere marchi anche particolarmente celebri il cui valore risulta iscritto per poche migliaia di euro, corrispondenti ai soli costi sostenuti per la registrazione. Non si tratta tuttavia, di una rappresentazione reale, poiché il valore di un diritto di proprietà intellettuale non corrisponde alla spesa che il titolare ha sostenuto per ottenerlo, bensì al ritorno economico che quel diritto è in grado di produrre. In caso di inferiore valorizzazione, le conseguenze negative sull’impresa sono molteplici. In primo luogo, la società potrebbe esporre un patrimonio netto inferiore a quello effettivo, con conseguente pregiudizio nella propria immagine commerciale e più difficile accesso al credito ed ai finanziamenti. Ma soprattutto, un’inadeguata contabilizzazione in bilancio impedisce alla società di beneficiare di consistenti vantaggi fiscali. Un esempio? “Consideriamo un marchio rivalutato in un importo 1 milione di euro. In tal caso, l’ammortamento annuale corrisponderà a 55.600 euro. Il tutto, per un risparmio di imposte pari a 15.512 euro l’anno, per complessivi 250.000 circa per l’intero processo di ammortamento (già al netto dell’imposta di rivalutazione)”. Insomma, tutto questo “semplicemente attraverso una corretta valutazione del marchio in parola”. Ora, proviamo a immaginare “i risparmi fiscali che una società potrebbe ottenere valorizzando correttamente tutti i propri asset di proprietà intellettuale”. E come questi risparmi potrebbero essere reimpiegati in azienda.
MONCLER, UN ESEMPIO DA SEGUIRE
Un esempio? Uno su tutti: Moncler. Per citare un campo affine al design. A partire dal 2003, con l’ingresso di Remo Ruffini, “ha inizio un percorso di riposizionamento del marchio attraverso il quale i prodotti Moncler assumono un carattere sempre più unico ed esclusivo. Sotto la sua guida, Moncler persegue una filosofia chiara e, nel contempo, semplice: creare prodotti unici di altissima qualità, versatili e in continua evoluzione ma al contempo sempre fedeli al dna del brand. Il motto ‘nasce in montagna, vive in città’ racconta come il marchio Moncler si sia evoluto da una linea di prodotti a destinazione d’uso prettamente sportivo, a linee versatili che clienti di ogni genere, età, identità e cultura, possono indossare in qualunque occasione e dove il capospalla, pur essendo il capo identificativo del brand, viene gradualmente e naturalmente affiancato da prodotti complementari sempre coerenti con l’unicità del marchio”. Insomma, “tradizione, unicità, qualità, coerenza ed energia, sono da sempre i caratteri distintivi del marchio Moncler che negli anni ha saputo evolversi pur rimanendo coerente alla propria tradizione, in una continua ricerca di un dialogo costante con i propri molteplici consumatori nel mondo. Ed è proprio da questa costante ricerca che nel 2018 nasce un nuovo progetto creativo e comunicativo, Moncler Genius – One House, Different Voices: una nuova casa per menti creative capaci di reinterpretare il brand Moncler sempre coerentemente alla sua storia e al suo dna, adottando un nuovo modo di operare”.
Ovvio che un investimento sul brand comporta anche un investimento economico di una certa consistenza. “Non c’è la cultura in tutte le aziende, va creata” chiosa Campigli. “Il messaggio che ho sempre dato all’interno delle aziende in cui ho lavorato è che è importante fare un investimento, essere coerenti nell’utilizzo del marchio con una strategia sottostante e un conseguente e coerente utilizzo. Solo così il consumatore è in grado di percepire la forza”.
UNA QUESTIONE CULTURALE
“Rispetto alla mia esperienza in azienda, e ci sono sicuramente anche altri motori, emerge la passionalità, l’istintività e meno la strategia che va messa in atto per raggiungere determinati obiettivi. Mancano, rispetto alle multinazionali americane o francesi, ad esempio, passaggi propedeutici per arrivare al risultato. Strategia di registrazione del marchio, di comunicazione, di valorizzazione dell’asset non sono così valorizzate in Italia. Ma se le piccole aziende non hanno a disposizione le risorse, le grosse realtà talvolta, mancano proprio di strategia della brand identity”. Che non è fatta solamente del legale, del creativo, del Cfo e del marketing, ma di tutte queste funzioni “che devono lavorare insieme e coordinarsi, far conoscere il marchio e valorizzare la funzione distintiva di origine dei miei prodotti dalla mia azienda” conclude Campigli. In definitiva, quando parliamo dell’estero ci vengono in mente i campioni nazionali. In Italia ce ne sono pochi come Ferrero e Barilla perché la pmi opera in un settore di eccellenze ma frammentato. Va a finire che si conoscono i marchi esteri meno frammentati. Appunto. La soluzione sta come sempre a mezza via, con la valorizzazione delle piccole e medie imprese, anche grazie a un supporto, a livello di Governo, che finalmente vedo negli ultimi anni”.