La moda incontra il design e ne mutua il linguaggio arricchendolo dei propri codici. Le home collection ampliano l’offerta delle maison, dalle capsule di oggettistica ai grandi progetti insieme ai player del real estate.
Un mondo in continua evoluzione, che opera in un territorio che diventa comune, dove gli attori sono le griffe, gli architetti, le aziende di produzione di arredamento, tessuti e complementi e i general contractor. In principio fu Giorgio Armani a lanciare la linea Casa, oltre 20 anni fa. Molti si sono aggiunti. Hanno allacciato partnership con le firme dell’arredamento, oppure, più semplicemente, propongono piccole collezioni di oggetti nei flagship store. Fenomeni in accelerazione su geografie diverse, che danno vita a morfologie distinte. Del resto, “due sono le strategie possibili di crescita in questo periodo: una è l’internazionalizzazione, l’altra la brand extension. Dunque, vendere più categorie merceologiche a fronte del fatto che gli ambiti più tradizionali in cui le aziende di moda operano sono ormai maturi”. Si tratta di estendere il brand in altri settori “massimizzando il cross selling”, secondo Erica Corbellini, senior lecturer di Strategy and Entrepreneurship in Sda Bocconi School of Management e professore a contratto di Management of Fashion Companies. Gli stilisti hanno sempre avuto una sensibilità innata nei confronti dell’arredamento, degli spazi entro cui inserire le collezioni. Dunque degli store. Senza scomodare Gianfranco Ferrè, l’architetto per eccellenza, in generale l’art director si confronta con chi sviluppa il punto vendita, che deve essere massimamente rappresentativo dei valori del brand. A partire proprio da questa sensibilità, alcune griffe hanno compiuto il passo successivo, diventando esse stesse brand di arredamento. Non avendo il know how direttamente in casa, si sono affidate a licenze. Hanno iniziato a proporre la loro visione della casa. Oggi le griffe arredano hotel e residenze esclusive, in partnership con gli stessi costruttori. Anche il solo settore del gifting però offre opportunità di sviluppo: “un oggetto da destinare alla casa, se è firmato, viene associato a contemporaneità, aspirazionalità e valore – evidenzia Corbellini –. Una bella opportunità da sfruttare anche da parte dei più piccoli nell’ambito della regalistica”.
Abbigliamento più periferico
Altro elemento che ha agito da acceleratore è stato il periodo di lockdown, che “ci ha portato a dare molta più importanza rispetto al passato allo spazio domestico. Oggi le persone vogliono spendere di più in qualcosa che rende più bello e più fresco l’ambiente in cui vivono, piuttosto che nell’abbigliamento che è diventato nella nostra vita un articolo più periferico in questo momento, meno importante rispetto a ciò che appartiene alla casa”. Una tendenza che, ad avviso di Corbellini, “durerà perché lo smart working diventerà strutturale, anche solo un giorno a settimana, e questo cambierà la nostra attenzione nei confronti dell’abitazione”. Altro fenomeno che guadagna terreno, le Brand Residences. “In Italia il fenomeno è marginale – evidenzia l’esperta – perché non fa parte della nostra cultura, anche se potrebbe trovare spazio e sviluppo associato agli affitti brevi: possiamo immaginare che ci sarà sempre più segmentazione e che quindi si potrà anche offrire un’esperienza di brand all’interno di un appartamento”. Ma va da sé che non è un mercato di ampia portata. A differenza di quanto avviene in Nord America e negli Emirati Arabi. “Mercati – sottolinea – molto sensibili agli ambienti di casa, in virtù della cultura, per loro naturale, di vivere negli alberghi”. Ecco che qui le opportunità che si aprono per i brand della moda sono importanti, in termini di contract di interior design. Con investimenti ovviamente più consistenti. Armani, Fendi, Versace, Roberto Cavalli, Etro, Trussardi, Ferrè… tante le maison che hanno, chi prima, chi più di recente intrapreso questo percorso attivando delle licenze. Ma quale futuro si prospetta per questi brand? Potranno internalizzare la produzione o continueranno a operare in partnership? Insomma, è possibile ipotizzare un superamento del meccanismo delle licenze? “Abbiamo assistito a fenomeni di questo tipo nel mondo dell’eyewear, basti pensare a Kering o Lvmh. Ma in generale i brand che in passato hanno tentato operazioni di gestione diretta di business diversi sono poi dovuti tornare sui loro passi per la difficoltà a gestire la produzione, l’industrializzazione, ma anche la stessa distribuzione in canali così diversi”, evidenzia Corbellini. Ovviamente, se “il business dovesse diventare particolarmente importante in termini di percentuale del fatturato, qualcuno di questi grandi gruppi potrebbe decidere di fare un’acquisizione. Penso ai colossi francesi, che avrebbero così a disposizione una unità che sarebbe di supporto agli sviluppi home di tanti brand che hanno al loro interno. Credo però che per tanti, soprattutto in Italia, verrà mantenuto un sistema di licenze e di partnership esterne”.
Declinazioni geografiche del lifestyle
Un mondo, e un gusto, sempre più lifestyle, ma con declinazioni diverse in relazione alle varie geografie: “per un consumatore evoluto accadrà esattamente quello che è avvenuto rispetto all’abbigliamento e agli accessori. Non ci sarà un total look, ma una contaminazione. Nelle case degli italiani entreranno gli accessori, non avverrà la brandizzazione dell’ambiente che crea un effetto luxury hotel. Quella del consumatore italiano è una cultura di stratificazioni successive, che si esprime anche nella casa, essendo per altro anche il luogo delle memorie. Questo non significa che non ci possa essere spazio per articoli che vanno a creare una sottolineatura, un’area di gusto all’interno di un contesto che come tale è variegato. Ci sarà un mix and match, se vogliamo utilizzare questo termine mutuato dalla moda”. Diversa l’attitudine dei ‘nuovi’ mercati che andranno sempre più nella direzione del lifestyle.
di Maria Elena Molteni