Quando si dice studio multidisciplinare. Marijana Radovic e Marco Bonelli, fondatori dello studio milanese m2atelier, spaziano dal residenziale al contract, passando dallo yacht design.
I loro background complementari li hanno portati a sviluppare un concept progettuale, una metodologia, applicabile a diversi ambiti dell’architettura e dell’interior design. Le chiamano ‘cabins’: sono rifugi, gusci, spazi ridotti in cui l’uomo si ricarica, ritrova la pace, si ascolta. Avete iniziato a parlare di questo progetto ben quattro anni fa, in tempi non sospetti. Ora provare a donare all’uomo una sorta di isola felice pare perfettamente allineato con le nuove esigenze della società. Di cosa si tratta, nello specifico? Siamo partiti dal Nord Europa, con una ricerca architettonica che cercava di trasmettere una sensazione di benessere diffuso legata a un luogo. Lo spazio tipico della cabin non è ampio, ma concentra in un volume minimo ciò che è necessario per ritrovare una certa intimità con se stessi. Con il tempo poi abbiamo capito che questo concetto poteva essere esteso a diversi ambiti progettuali, spaziando dalla città alla piccola camera di una residenza cittadina. Ovunque è necessario, secondo noi, ritrovare pace e armonia: ogni ambiente che viviamo ha un effetto su di noi e sul nostro essere; il concetto è quello di creare delle comfort zone, spazi contenuti per fare in modo che stato psico-fisico e ambiente siano simbiotici l’uno con l’altro. Quanto è importante il contesto? Il beneficio viene da uno stretto contatto con la natura e dalla progettazione che permette grande visibilità degli spazi aperti in cui si è immersi. Può sembrare un azzardo, ma la scala del contesto esterno non influisce sul benessere che si vuole ricreare, piuttosto si punta a una progettazione legata alla scala umana, che aiuta a innescare principi che portano a riflettere sul distacco necessario dalla frenesia e dall’inquinamento di infomazioni a cui ormai siamo tutti abituati. L’esterno e l’interno sono in stretta comunicazione, la progettazione dell’interno è molto controllata a livello acustico, si cerca di modellare i volumi attraverso la luce, sia naturale che artificiale, utilizzando materiali valorizzati dalla tecnologia.
Quali le caratteristiche principali della progettazione ideale legata alle ‘cabins’?
Ognuno ha le proprie necessità, a cui il progetto si adatta. C’è chi ricerca una sensazione di sicurezza e protezione. Chi apprezza il valore del silenzio. Chi ritrova pace in pochi metri quadri rispetto ad ambienti dispersivi e molto ampi. In generale, ciò che importa è che lo spazio progettato sia in relazione con l’esterno. Questo aspetto lo abbiamo tradotto in ambito residenziale e contract partendo dall’esperienza maturata nel navale, in cui panorama e contesto esterno alla barca sono fondamentali: la visione non è mirata a uno spazio interno che guarda solo a se stesso, ma al contrario, un volume che si apre all’orizzonte. Grazie all’architettura e al design si arriva a uno spazio essenziale, ma non minimal o freddo. Le prospettive sono ben orchestrate, con una profondità di campo sempre garantita nonostante l’assenza di spazi molto ampi. I muri spesso sono scorrevoli, composti da pannelli a scomparsa: l’occhio ha di fronte meno orpelli e decorazioni, perché lo scopo è quello di ricreare un volume interessante, ma che trasmetta calma. Una sorta di evoluzione del principio ‘less is more’, che si trasforma in ‘less is enough’.
È un concept replicabile in diversi contesti, dalla montagna alla dimensione urbana. Corretto?
Sì, non vogliamo legarlo a un luogo preciso, che sia isolato o in mezzo al caos cittadino. Quel che desideriamo creare è qualcosa che riesca a contrastare gli aspetti negativi del mondo in cui viviamo, come la velocità, l’ansia da prestazione, lo stress. Oggi siamo i protagonisti di questa contemporaneità, che ci spinge a rispondere immediatamente a una mail o una chiamata o uno stimolo in generale. Ovvio che il bisogno dell’uomo sia legato alla disconnessione: attraverso il progetto, vogliamo restituire una comfort zone in cui sia possibile rallentare, per venti minuti (in un giardino appartato, all’interno di un hotel) o per un anno (in una residenza privata in mezzo al nulla, circondati dalla natura). Nella storia dell’architettura, le funzioni e le necessità sono sempre state tradotte con un determinato linguaggio estetico per poter rispondere all’esigenza specifica della società in un determinato momento. Quando le necessità cambiano, allora cambia anche la progettazione. Oggi ci sono sicuramente dei desideri nuovi, il bisogno di rallentare dopo periodi di elevato stress è vitale. Tra l’altro, lavorando all’interno di un contesto globale, spesso ci si deve adattare a velocità e reattività anche differenti (e superiori) dalle proprie. Se parliamo di spazi, le esigenze umane e la voglia di decompressione devono essere prese in considerazione per qualsiasi tipo di progetto, dall’hospitality al contract al residenziale, dalla scala della singola camera al progetto esteso di un resort. Le nostre ‘cabins’ sono un po’ il simbolo di questo concetto.
In cosa si traduce, secondo voi, la sensazione di comfort?
Il benessere di cui parliamo noi non è legato alla comodità di un singolo arredo, ma è uno stato psicologico preciso. Poi, a seconda dei diversi desideri del cliente, questo benessere può essere rappresentato realisticamente da un albero fiorito, una panca in cemento grezzo, un divano ampio. Il comfort è legato alla persona che vive lo spazio. Se ci riflettiamo, ognuno di noi ha un bisogno simile, che può essere ovviamente declinato in molti modi differenti, in base alla singola persona. Io posso desiderare uno spazio per il fitness, oppure per la lettura, o un luogo isolato dove dedicarmi all’ascolto della musica. La nostra ricerca deriva dall’osservazione e dall’ascolto del cliente e sfocia in una progettazione che definiremmo sensoriale, pensata per un contesto ben preciso. Dove per contesto intendiamo sempre la persona, e mai il luogo in cui si agisce.
di Valentina Dalla Costa