La rivista Esquire lo cita fra i “Best & Brightest”, Forbes nei “Names You Need to Know”, Wired nella lista delle “50 persone che cambieranno il mondo” e Fast Company fra i “50 designer più influenti d’America”. Carlo Ratti, maestro dell’innovazione, immagina il futuro nel segno di un nuovo umanesimo.
Architetto e ingegnere fuori dai cliché, Carlo Ratti è uno dei protagonisti più brillanti del dibattito internazionale sull’influenza delle nuove tecnologie sul domani delle nostre città. Ma, oltre a essere progettista rigoroso e innovatore all’avanguardia, studia il mondo che verrà con il piglio del pensatore rinascimentale: interprete di un sapere non solo specialistico ma globale, capace di abbracciare in un’unica e ampia visione tutte le esigenze di un vivere più a misura d’uomo.
Direttore al Massachussetts Institute of Technology di Boston (MIT) del Senseable City Lab e cofondatore dello studio di progettazione Carlo Ratti Associati con sedi a Torino e a New York, Ratti immagina di qui a qualche anno “città più umane e capaci di sentire, attraverso sensori digitali, quanto essere ricettive rispetto ai bisogni dei cittadini”. Per fare chiarezza su queste prospettive, lo abbiamo incontrato in remoto. Come si addice all’epoca presente, che peraltro porta già in sé l’impronta di un futuro ormai prossimo.
Come ha trascorso il periodo di isolamento forzato?
Ho vissuto le prime settimane del lockdown negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Boston, ma in costante contatto con il team italiano. È stato un periodo insolitamente stanziale, ma si è rivelato un’occasione unica per scoprire quanto si possa fare anche restando fisicamente lontani. I momenti di difficoltà spesso portano nuove idee e nuovi progetti. Come disse una decina d’anni fa Rahm Emanuel, ex braccio destro di Barak Obama e sindaco di Chicago: “Mai sprecare una crisi”.
L’aspetto delle città cambierà dopo questa e altre eventuali pandemie?
A cambiare non sarà tanto l’impianto della città, quanto l’uso che ne faremo: ci saranno trasformazioni che riguardano più il software che non l’hardware. Pensiamo alla mobilità: avremo sempre bisogno delle stesse strade, ma forse le utilizzeremo in modo diverso. Spero con meno automobili e con più biciclette e monopattini, che permettono di coniugare le esigenze sanitarie con quelle ecologiche.
La Corona-crisis ha posto l’accento sulla necessità di creare nuove infrastrutture di cura. Come le immagina?
La crisi ha solo accelerato trasformazioni interessanti, che in parte erano già in atto. Anche noi abbiamo collaborato con una task force internazionale di architetti, ingegneri ed esperti che è scesa in campo con il progetto CURA (Connected Units for Respiratory Aliments). Si tratta di un’iniziativa open-source che converte container marittimi in unità di terapie intensiva con biocontenimento: in poche settimane abbiamo realizzato la prima unità, attualmente attiva a Torino, e il modello è in fase di replica in diversi Paesi del mondo. L’obiettivo è quello di mettere a punto nuovi strumenti progettuali, basati sulla condivisione e sull’open source, idonei a fornire un’alternativa rapida, agile e riutilizzabile, agli ospedali da campo e alle strutture ospedaliere fisse. Un approccio simile si potrebbe applicare in molti altri casi.
Il lavoro dell’architetto consiste nella capacità di leggere il futuro. È d’accordo?
La parola “progetto”, dal latino “proiectus”, vuol dire proprio guardare avanti, cercare di costruire il futuro. Lo si può fare al meglio solo tramite un approccio trasversale, che coinvolga competenze diverse per uno sguardo aperto alla complessità. Oggi più che mai è indispensabile aprirsi a più punti di vista, cercando le risposte proprio sul confine tra una disciplina e un’altra. La profondità è conseguenza naturale della molteplicità. Questo è il principio alla base dei team di lavoro tanto in CRA – Carlo Ratti Associati – quanto al MIT, dove dirigo il Senseable City Laboratory.
Si prevede che, di qui a breve tempo, le macchine saranno superiori agli esseri umani numericamente e anche mentalmente. Quale sarà il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale?
Nel corso dei secoli l’uomo ha esternalizzato molte attività, delegandole alla tecnologia, e si è concentrato su quelle in cui aveva un vantaggio competitivo. In altri termini, abbiamo delegato all’aratro e al bue il tracciamento del solco, e ci siamo concentrati sulla semina. Le visioni distopiche preconizzano un mondo in cui l’uomo sarà soppiantato dalla tecnologia, io preferisco credere all’utopia dell’artista olandese Constant Nieuwenhuys, secondo il quale la liberazione dalla schiavitù del lavoro meccanico ci permetterà di dedicarci ad attività ludiche: “Nella città del futuro, estesa come il mondo intero, [in] una società dalla completa automazione, il bisogno di lavorare sarà rimpiazzato da un’esistenza nomade, di gioco e creatività: un moderno ritorno all’Eden. L’homo ludens, liberato dal lavoro, non dovrà più neppure fare arte, perché sarà creativo nelle azioni quotidiane della sua vita”. Si può allora immaginare il mondo come un grande, infinito tappeto da gioco…
Durante la quarantena, la natura, le piante e gli animali si sono riappropriati degli spazi urbani. Che cosa ci insegna questa evidenza?
Dovremmo riflettere sulla necessità di una maggior integrazione fra mondo naturale e artificiale, che è quello che cerchiamo di fare con la nostra pratica architettonica. Lo abbiamo sperimentato, ad esempio, con VITAE, un lotto industriale a Milano, a pochi metri dalla Fondazione Prada, con oltre 5000 metri quadrati di spazio pubblico restituiti alla comunità, da cui parte una vigna che si avvita sull’edificio e collega tutti i suoi ambienti. Più recente, invece, è il progetto per il lungolago di Lugano, che esplora il tema dell’acqua come elemento di connessione, proiettando la città verso il lago, valorizzando il trasporto leggero via acqua e mitigando il traffico sulle rive.
A proposito di movimento: l’architettura va intesa come un sistema chiuso o come uno spazio dinamico?
Quando progetto, cerco di immaginare degli spazi sensibili e pronti ad adattarsi ai bisogni delle persone. È un principio che si applica a ogni scala: Ernesto Nathan Rogers, il nostro grande teorico dell’architettura, diceva “dal cucchiaio alla città”, mentre noi, oggi, dovremmo dire “dal microchip al mondo”. Per questo, per definire un ambiente, un’abitazione, una città, mi piace usare il termine “Senseable”, aggettivo che allude a uno spazio sensibile e capace di sentire. E, in più, estende e completa il significato di “smart”, portandolo ben oltre l’accezione convenzionale di uno spazio attrezzato in chiave tecnologica.
Expo Dubai 2021: il vostro progetto per il Padiglione Italia è stato un banco di prova per esplorare nuovi linguaggi architettonici?
Nel progetto per il Padiglione Italia siamo partiti dall’idea di un luogo capace di trasformarsi continuamente: per questo abbiamo lavorato sul tema di un’architettura riconfigurabile, sia a lungo termine – grazie al riuso dei suoi componenti, le barche che tornano a navigare – sia a breve termine – grazie alle tecnologie digitali. Tema comune è la circolarità: nulla va sprecato e tutto viene riutilizzato.
L’architetto Rem Koolhaas sostiene il futuro dipende sopratutto da come sapremo lavorare nel country side. E le città?
Le città si riprenderanno presto la scena: la Storia del resto insegna che, dopo tutte le più grandi crisi, le aree urbane hanno sempre attivato efficaci meccanismi di risposta. Per esempio: alla metà del Trecento, la peste falcidiò il 60 per cento della popolazione di Venezia ma non per questo nei secoli successivi si rinunciò a vivere nelle sue bellissime calli o ad affollare i suoi teatri. Credo che in un futuro non troppo lontano torneremo alla Fenice, pigiati l’uno contro l’altro… È però necessario che le nostre città siano resilienti e, pur senza modificare la loro struttura, dovranno essere disposte a lasciarsi abitare in modo diverso.
Quando stacca ha un suo rifugio?
D’estate, quando lavoro con il nostro team di Singapore, affitto una casetta a Ubud, Bali. All’inizio della primavera, mentre insegno al MIT, cerco di ritagliarmi un po’ di tempo sui ghiacciai dell’Alaska, vicino a Valdez. Adesso che sono in Italia sto riscoprendo le meraviglie del nostro Paese, che ho attraversato troppo in fretta negli ultimi anni. Mi viene in mente Cesare Pavese, l’autore de “La luna e i falò”, che quando arriva in California e vede le lunghe colline sotto il sole, quasi identiche a quelle piemontesi, si chiede: “Valeva la pena di aver traversato tanto mondo?”.
di Monica Montemartini