Dagli anni Ottanta della “Milano da bere” a oggi, dalla moda al design. Un’esperienza che ha insegnato a non fermarsi e ad andare oltre i propri confini.
Si sono lasciati sopraffare dal campanilismo, non sono stati in grado di fare rete e così hanno “dimezzato le loro possibilità”. Con l’aplomb che lo contraddistingue, il presidente di Kartell Claudio Luti non ha usato mezzi termini e ha individuato nell’incapacità di fare rete le criticità delle aziende del design in Italia, per rilanciarsi dopo gli anni di crisi e andare oltre la “ripresina”.
Che cosa manca alle nostre aziende oggi, per essere davvero competitive a livello globale?
Negli ultimi anni, gli italiani, come al solito, si sono accontentati di essere più bravi come produttori, e si sono accontentati di vendere in Italia. Non hanno mai fatto sistema. Non occupandosi molto della distribuzione si sono praticamente dimezzate le loro possibilità. In più, gli italiani sono molto individualisti, e al solo pensiero di mettere insieme alcune aziende della Brianza mi viene da ridere.
Come risolvere questo impasse, allora?
Forse non resta che ‘comprarsi’. Però non ci sono ancora tutte quelle sinergie che si possono immaginare. E poi, quando si fanno acquisizioni, bisogna avere un grande rispetto del marchio e del know how di aziende che dai clienti sono riconosciute per le loro specificità. Occorre quindi lasciar loro una grande autonomia. La chiave, comunque, è senza dubbio lavorare per clienti mondiali ed elaborare un programma a lungo termine, con le persone giuste e con le giuste strategie.
Lei è arrivato in Kartell dal mondo della moda, come co-fondatore della Versace: un mondo già internazionale. Come ha trovato, invece, l’universo design?
La Versace era molto vitale e ambiziosa, e questa atmosfera neppure si sfiorava da Kartell: trovai un mondo lento e con pochissimo estero. Una situazione dolce e felice, insomma, in cui i viaggi all’estero venivano fatti più per piacere che per business.
Come è intervenuto lei in questa realtà e come l’ha cambiata?
Sono arrivato con un’unica idea, cercando di rimanere un industriale. La squadra aveva molte competenze e io ho dato più libertà ai creativi, mentre la tecnologia doveva essere al loro servizio. Ho cercato di portare maggiore libertà al pensiero e allo sviluppo del prodotto industriale, tenendo bene a mente che un’industria innovativa può fare ciò che l’artigianalità non può fare. (t.p.)