Industrializzazione spinta e produzione made in Italy hanno permesso a Imab di crescere del 70% in cinque anni, posizionandosi nella fascia accessibile e arrivando a 145 milioni di ricavi. Il plus delle grandi partnership, da Fincantieri a Mondo Convenienza.
Chi ha detto che il made in Italy oggi può riguardare esclusivamente l’alto di gamma? La case history di Imab dimostra l’esatto contrario o magari costituisce l’eccezione alla regola; ad ogni modo, l’azienda fondata 50 anni fa nel distretto pesarese del mobile da Antonio Bruscoli e cresciuta sotto la guida del figlio Gianfranco, attuale presidente, si è distinta, nell’ultimo lustro, per una crescita di quasi il 70% e con numeri tutt’altro che marginali. Il 2017 è stato archiviato a quota 145 milioni di ricavi. L’occupazione è aumentata di pari passo, dai 500 dipendenti del 2012 ai quasi 800 di oggi. “Teniamo poi conto – precisa Gianfranco Bruscoli, che può contare sull’apporto del figlio Alberto nell’ambito commerciale – che l’esercizio appena concluso è stato di parziale consolidamento, con una progressione limitata al 3%, perché dopo quattro anni di crescita molto spinta avevamo bisogno di rifiatare e riorganizzarci per mantenere l’alto livello del servizio offerto ai nostri clienti. Ora però siamo pronti a ripartire.
In quali ambiti pensa di ottenere i migliori risultati?
Il contract per noi è poco più di una start up. Dopo un test durato due anni, abbiamo superato la prova e siamo diventati partner di Fincantieri, a cui forniamo cabine realizzate su commissione. A fine anno pensiamo di ottenere dalle forniture navali il 3% del nostro giro d’affari, pari all’incirca alla metà dei ricavi complessivi derivanti dalla progettazione. E ci siamo strutturati per crescere, con una fabbrica appositamente realizzata per il contract.
Qual è il Dna del vostro gruppo?
Il mio motto è da sempre: voglio essere il primo dei secondi, intendendo con questo la mia volontà di operare nell’ambito del mobile democratico, ben fatto e di buon gusto. La passione per la tecnologia e la volontà di organizzare in maniera scientifica le operazioni hanno permesso a Imab di raggiungere l’obiettivo.
Come siete organizzati?
Imab dispone di una decina di unità produttive, tutte di nostra proprietà, che operano in stretto collegamento e interagiscono al tempo stesso con diversi partner locali. Il distretto pesarese, pur essendo stato messo a dura prova dalla crisi, resta una risorsa straordinaria e noi stessi avvertiamo la responsabilità sociale di dover fare da capofila, difendendo il know how diffuso nel territorio attraverso la distribuzione di commesse e anche accorciando i tempi di pagamento ai fornitori, che altrimenti entrerebbero in grosse difficoltà. Siamo comunque un’azienda verticalizzata. Partendo da uno stabilimento ‘madre’, specializzato nella realizzazione dei pannelli destinati a tutti gli ambiti della casa, abbiamo avviato varie unità produttive per coprire ogni ambito della casa, dal living agli armadi fino alle cucine. Partiamo dal semilavorato per arrivare al prodotto finito.
Ottocento dipendenti nel 2017, tutti in Italia… com’è possibile?
Il nostro distretto, un tempo, era l’esemplificazione del ‘piccolo è bello’, del modello di disintegrazione verticale che trionfava in Italia. Oggi il mondo è cambiato e quel modello, data l’eccessiva incidenza dei costi logistici nel passaggio del ciclo produttivo da una fabbrica all’altra, non funziona più. La verticalizzazione ci consente di abbattere i costi logistici, pur aumentando la complessità, perché riduce il lead time. Siamo riusciti a imporre il nostro modello perché abbiamo sempre investito, anche negli anni in cui apparentemente conveniva commercializzare anziché produrre in loco. Abbiamo speso mediamente 4,5 milioni annui nell’ultimo decennio. Gli incentivi legati al piano Industria 4.0 sono stati di grande aiuto in tal senso.
E l’Italia, come mercato, quanto vale per Imab?
Lo scorso anno, il mercato interno ha assicurato l’88% dei ricavi. Il budget 2018 prevede un 15-16% di export e puntiamo in particolare a una crescita consistente negli Stati Uniti, dove stiamo entrando con campionature importanti all’interno di uno dei cinque top dealer Usa. È nostra intenzione aumentare la quota export ma il mercato italiano resterà sempre il più importante, proprio perché siamo convinti che un’azienda, se vorrà dir la sua all’estero, deve restare leader nel proprio Paese di appartenenza. E del resto, non avendo mai delocalizzato la produzione, abbiamo un vincolo legato anche alle strategie di distribuzione.
Quali sono le tre cose più importanti che intendete fare da qui a fine anno?
La prima è completare un grosso impianto che ci permetterà di ridurre ulteriormente il lead time, con conseguente vantaggio a livello organizzativo e di costi. La seconda è alzare l’asticella nell’eliminazione degli sprechi, e credo ci sia un ampio margine per lavorare in tal senso. Infine, vogliamo cogliere tutte le opportunità legate al contract non solo nell’ambito navale, ma anche in quello residenziale, dove possiamo crescere avendo a disposizione una gamma pressoché completa di prodotti.
Imab è organizzata in tre business unit: retail, contract e partnership con i grandi player. Come opera quest’ultima divisione?
Attraverso forme di integrazione con quei gruppi della distribuzione ai quali siamo uniti da valori condivisi, e con i quali stringiamo i rapporti anche in termini di logistica o di software applicativi. L’esempio più importante è Mondo Convenienza, che ci assicura una quota consistente di fatturato annuo con budget sfidanti anche per il 2018. E non sarà l’unico…
Al Salone del Mobile non esponete più dal 2015. Per quale ragione?
Abbiamo preferito rinunciare perché la nostra priorità consisteva nel fare ordine in termini di assetto organizzativo e industriale. In prospettiva, ora che possiamo disporre di un’organizzazione più definita, Milano potrebbe tornare ad essere un’opportunità. Intanto pensiamo a celebrare degnamente il cinquantesimo anniversario che cadrà il 27 maggio, a mezzo secolo esatto dalla firma dell’atto costitutivo.
di Andrea Guolo